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Cinquant’anni d’aiuto svizzero a Madagascar, e dopo?

Questi vigneti della regione di Fianarantsoa sono stati introdotti dalla cooperazione svizzera swissinfo.ch

Dagli anni ’60, la Svizzera ha investito quasi mezzo miliardo di franchi per lo sviluppo del Madagascar. Questo sostegno cesserà ufficialmente il 31 dicembre 2012. Malgrado i timori, sull’isola si vuol credere all’effetto duraturo delle azioni avviate dalla cooperazione elvetica.

Presto si girerà pagina nella storia degli stretti legami che da quasi mezzo secolo uniscono la Svizzera al Madagascar. Tra un po’ più di un anno, infatti, si concluderà l’ultimo programma speciale finanziato dalla cooperazione svizzera. In seguito rimarrà solo un magro sostegno finanziario di 1,5 milioni di franchi all’anno.

«Formalmente partiremo alla fine del 2012. Desideriamo però mantenere una piccola fiamma accesa», sottolinea Lukas Frey, capo progetto alla Direzione dello sviluppo e della cooperazione (DSC). Una piccola fiamma comunque ben più fioca di quella che brillava negli anni ’80 e ’90, quando i budget della cooperazione svizzera raggiungevano 15-20 milioni di franchi all’anno.

La svolta brutale che ha marcato la fine delle attività delle attività risale di fatto al 1996, con l’assassinio di Walter Arnold, cooperante svizzero attivo nella costruzione di strade. L’emozione mediatica e la scarsa solerzia delle autorità malgasce per ritrovare i colpevoli, avevano spinto il parlamento dell’epoca ad escludere il Madagascar dalla lista dei paesi prioritari per l’aiuto umanitario.

Inquietudini

Deciso all’inizio degli anni 2000, il ritiro si concretizza oggi, in un momento in cui il paese sta attraversando una delle più gravi crisi politiche della sua storia, dopo il rovesciamento del regime ad opera del sindaco di Antananarivo Andry Rajoelina nel 2009.

Ciò che suscita una certa inquietudine sull’isola. «È un cattivo segnale dato alle altre cooperazioni bilaterali, soprattutto perché la Svizzera ha svolto opera di pioniere nel paese», sottolinea Mamy Andriatiana, giornalista dell’agenzia stampa Médiascope, creata grazie alla cooperazione elvetica.

Tanto più che le sanzioni finanziarie adottate dalla comunità internazionale nei confronti del regime di transizione hanno avuto un impatto diretto sulla popolazione e aggravato l’insicurezza alimentare, che colpirebbe ormai un malgascio su due, stando al relatore speciale dell’ONU sul diritto all’alimentazione.

«Si tratta di una coincidenza sfortunata, ma naturalmente capiamo queste preoccupazioni, sottolinea Nicola Felder, rappresentante della DSC in Madagascar. Tra l’altro, la Svizzera informa costantemente i suoi partner sugli effetti negativi delle sanzioni internazionali. Quando uno Stato funziona nella misura del 70% grazie all’aiuto esterno, a soffrire della chiusura dei rubinetti sono i più poveri».

Disimpegno responsabile

Il ritiro della Svizzera, che non significa una rottura totale con il Madagascar, vuole comunque essere condotto in maniera responsabile. È questo in ogni caso il messaggio sbandierato dal Dipartimento federale degli affari esteri (DFAE), che in giugno ha confermato la permanenza dell’ambasciatore elvetico, diventato ormai assieme ai suoi omologhi tedesco e francese uno dei pochi ‘superstiti’ della diplomazia occidentale sull’isola.

Il piccolo budget assegnato dalla cooperazione svizzera dovrebbe permettere di perennizzare gli effetti della SAHA, vasto programma di sviluppo rurale che giunge alla fine dopo dieci anni di attività. L’obiettivo del progetto, realizzato dalla fondazione svizzera Intercoopération, è di favorire uno sviluppo economico sostenibile e di lottare contro la povertà. Per raggiungerlo si è messo l’accento sul rafforzamento delle organizzazioni contadine, delle filiere agricole e sulla lotta alla corruzione.

Una scelta pertinente

«Quando migliora la trasparenza finanziaria, il comune è tenuto a rispondere del proprio operato di fronte alla popolazione. I servizi migliorano, i cittadini pagano più facilmente le imposte, altre azioni concrete possono essere portate avanti. Le autorità diventano più popolari e si fanno rieleggere, ciò che spinge altri comuni ad agire nello stesso modo. Creiamo un circolo virtuoso a partire dalla base», sottolinea Estelle Raharinaivosoa, direttrice nazionale del programma SAHA.

Intervenendo a livello socio-organizzativo, le competenze rimangono anche dopo la fine dell’aiuto finanziario. «La nostra partenza è quindi sensata. Non è come se lasciassimo di punto in bianco delle infrastrutture senza manutenzione», osserva Lukas Frey. «I cittadini e le autorità locali non sono più assistiti, ma diventano responsabili del loro proprio sviluppo», sottolinea Parfait Randrianitovina, esperto di “governanza” e stipendiato della SAHA.

Il programma è elogiato dalla maggioranza degli attori del settore presenti sull’isola. Banca mondiale, commissione europea, universitari specializzati nelle questioni di sviluppo, tutti lodano la pertinenza di un programma pensato anche per resistere alle crisi politiche cicliche che regolarmente colpiscono il paese dall’indipendenza. In un rapporto del 2010, il Centre on Conflict, Development and Peacebuilding dell’università di Ginevra sottolinea l’approccio proattivo della decentralizzazione della SAHA, «contrariamente ad altri programmi e politiche con orientamenti molto più tecnocratici».

Una ONG locale

A un livello superiore, la Svizzera ha anche partecipato negli ultimi anni all’elaborazione di nuove leggi, segnatamente quella sulla decentralizzazione. Dopo il 2012, vuole continuare ad appoggiare certe politiche settoriali, in particolare per quanto concerne il diritto fondiario. «Siamo praticamente i soli che si possono basare su 50 anni di esperienza nel paese. È un aspetto molto apprezzato nei ministeri e ciò indipendentemente dai governi che si succedono», dichiara Lukas Frey.

La SAHA si trasformerà in una ONG al 100% locale. «Lanciamo comunque un appello alle autorità svizzere affinché ci accompagnino in questa fase iniziale», dice Estelle Raharinaivosoa, che non nasconde una certa apprensione. Sul terreno, l’inquietudine è molto più palpabile. Ad essere preoccupati non sono solo gli impiegati della SAHA che perderanno il lavoro, ma anche migliaia di beneficiari del programma.

Marie Philibertine Razanamalala, presidente di un’organizzazione contadina attiva nella filiera della seta, è una di queste: «La SAHA ci ha fornito un importante appoggio tecnico e amministrativo per la commercializzazione e l’esportazione dei nostri prodotti. Ma siamo solo all’inizio e sarà difficile proseguire la nostra attività senza il suo sostegno».

Oltre alla paura di un salto nel vuoto, la partenza della cooperazione svizzera ha anche risvolti emotivi. Fanja Randrenalijaona, collaboratrice di lunga data della DSC e di altri enti occidentali, riassume così: «Gli svizzeri sono nello stesso tempo umanisti e pragmatici, ci mancheranno».

La storia della cooperazione svizzera in Madagascar è iniziata negli anni ’60 e si è sviluppata soprattutto negli anni ’70, con l’apertura un ufficio. Durante gli anni ’80, l’aiuto elvetico si è concentrato soprattutto sulla gestione sostenibile delle risorse naturali, sulla ricerca agronomica, sull’acqua potabile e sulla sanità.

Dopo l’assassinio del cooperante elvetico Walter Arnold nel 1996, la Direzione dello sviluppo e della cooperazione ha chiuso il suo ufficio di Antananarivo e il Madagascar è stato depennato dalla lista dei paesi prioritari per l’aiuto umanitario. Tre anni più tardi, la Confederazione ha comunque lanciato il suo programma SAHA per la buona ‘governanza’ e la promozione dell’economia locale. Questo programma giungerà al termine nel 2012. La Svizzera continuerà a sostenere qualche iniziativa, per un importo complessivo di 1,5 milioni di franchi.

In Madagascar vivono circa 420 svizzeri. Uno su quattro possiede la doppia nazionalità. Gli scambi tra i due paesi sono modesti. Nel 2009 la Svizzera ha esportato beni per 2,9 milioni di franchi e ha importato per 6,19 milioni, essenzialmente dei prodotti agricoli.

Traduzione di Daniele Mariani

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