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In Ruanda le ferite del passato faticano a rimarginarsi

Quello di Ndera è l'unico ospedale psichiatrico del Ruanda. swissinfo.ch

Devastato alla fine del genocidio, l’unico ospedale psichiatrico del Ruanda è oggi una struttura modello per l’intero continente africano. Vi si curano i casi più gravi, anche grazie alla collaborazione di specialisti ginevrini. Cosa ne è invece delle anime in pena che ancora vagano al suo esterno?

Situato su una collina nei pressi dell’aeroporto internazionale di Kigali, l’ospedale psichiatrico di Ndera è immerso in un clima di serenità. Gli edifici sono circondati da numerosi spazi verdi ben curati e da un campo da basket. Sembra di essere in un luogo ideale per rilassarsi, a soltanto pochi chilometri dal centro della capitale ruandese e dai suoi tumulti.

Nel corso della visita, il silenzio si fa tuttavia improvvisamente più opprimente. Con occhi vitrei e sguardi stravolti dall’effetto dei medicinali, i pazienti – ammassati in piccoli gruppi nelle aree consacrate agli uomini – fissano a lungo il visitatore.

«Lavoro qui da 14 anni e non sono mai stato aggredito», ci rassicura Jean-Michel Iyamuremye, direttore dell’ospedale. «I pazienti hanno bisogno soprattutto di essere ascoltati, di comprensione. Dobbiamo sentire la loro sofferenza».

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I casi più difficili

L’ospedale di Ndera, unica clinica psichiatrica del Ruanda, non ospita soltanto persone inoffensive. «Ci occupiamo dei casi più difficili», spiega Jean-Michel Iyamuremye. «Queste persone sono spesso affette da una malattia psichiatrica, come la schizofrenia, alla quale si aggiungono i forti traumi legati al genocidio del 1994».

In Ruanda, quasi un terzo della popolazione continua a soffrire dei traumatismi provocati dal massacro dei Tutsi e degli Hutu moderati, secondo le stime dell’Organizzazione mondiale della sanità.

«In un modo o nell’altro, tutta la popolazione è stata implicata nel genocidio», rileva Jean-Michel Iyamuremye. «Le persone ben integrate nella società, che hanno un lavoro e dei legami sociali, riescono però a superare questo tragico evento con più facilità».

A Ndera si trovano anche tutti gli emarginati che la polizia ha cacciato dal centro di Kigali o i condannati più turbolenti. Ma al suo esterno, quante sono le anime in pena ancora prigioniere dei demoni del passato? A quasi vent’anni di distanza, molti preferiscono non parlare del genocidio. Ogni anno nel mese di aprile, al momento delle commemorazioni ufficiali, il trauma collettivo ritorna però come un boomerang nella memoria dei ruandesi.

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Bambini traumatizzati

In quell’occasione, l’ospedale di Ndera invia il suo personale medico sui luoghi delle commemorazioni per prendersi cura direttamente dei pazienti. «Alcune persone sono come paralizzate dai flashback. Bisogna scuoterle leggermente per farle ritornare alla realtà», racconta Alphonse Nkurunziza, psicoterapeuta dell’AMI, un’associazione locale specializzata nella cura dei traumi.

«Molti ruandesi – prosegue Alphonse Nkurunziza – non vogliono partecipare alle rievocazioni e rifiutano di elaborare il lutto. Si tratta spesso di un segnale indiretto di traumi più gravi».

Nella vita di tutti i giorni, una parte della popolazione non riesce ancora a darsi pace. Spesso diffidenti, i sopravvissuti reagiscono al minimo rumore che potrebbe ricordare loro l’inizio del genocidio. A volte, il semplice stridio dei bambini è sufficiente per far riemergere il terribile ricordo delle milizie estremiste Hutu.

A preoccupare Jean-Michel Iyamuremye è poi un nuovo fenomeno. «Alcuni bambini nati dopo il genocidio presentano dei sintomi di disturbi post traumatici. Non riescono a sopportare le storie raccontate dagli adulti».

Per numerose associazioni che lavorano nell’ambito della salute mentale in Ruanda, un approccio occidentale incentrato sull’individuo non è forzatamente adatto alla realtà locale.

Per la gestione dei traumi, hanno così sviluppato un approccio comunitario che ingloba le dimensioni biologiche, spirituali e sociali. Ciò permette anche di ovviare alla mancanza di mezzi e di competenze in materia di salute mentale, di cui soffrono diverse regioni del paese.

In una cultura che non ha l’abitudine di esprimere a parole le proprie emozioni, alcune tecniche (ad esempio di respirazione) consentono di ridurre le tensioni in seno al gruppo.

Il governo ruandese, intenzionato a riconsolidare la struttura paesana, punta invece sul concetto tradizionale dell’ubudehe: un lavoro in comune, come la coltivazione di un campo, permette di evitare l’escalation e di avvicinare carnefici e vittime.

Violenza domestica

La “privatizzazione” della violenza è un’altra particolarità importante di questa ferita collettiva. «I traumatismi s’introducono nella sfera famigliare e sono fonte di conflitti. Ciò si manifesta con la violenza domestica, il consumo di droga e di alcol», osserva Alphonse Nkurunziza.

Il Ruanda conta un unico pedopsichiatra e meno di dieci psichiatri. Cifre ben misere, considerata anche l’entità della missione. Per rimettere in sesto un sistema di salute mentale devastato dopo il genocidio, sono stati fatti sforzi enormi, anche se il governo è stato accusato di voler eliminare troppo rapidamente i dolori del passato.

Per Jean-Michel Iyamuremye, il lavoro di sensibilizzazione effettuato dalle autorità – la discriminazione dei malati fisici e psichici è penalmente repressa – così come l’adozione di un sistema mutualistico per tutti, hanno facilitato enormemente l’accesso ai servizi di salute mentale.

Aiuto svizzero

«In questi ultimi anni, abbiamo aperto numerosi servizi: psicologia clinica, dipendenza, malattie mentali e HIV, psicoterapia, servizio neurologico per la cura degli epilettici», ci dice con un certo orgoglio il direttore.

«Gli specialisti dei paesi limitrofi – aggiunge Jean-Michel Iyamuremye – vengono qui per fare esperienza. Riceviamo anche regolarmente studenti africani ed europei».

Senza il sostegno dei donatori internazionali, l’ospedale di Ndera non potrebbe comunque funzionare con i medesimi standard. Dal 1996 al 2008, gli Ospedali Universitari di Ginevra (HUG) e l’agenzia svizzera dello sviluppo e della cooperazione (DSC) hanno partecipato alla realizzazione di una rete di cure psichiatriche in Ruanda. Ndera è stata la prima struttura.

A dimostrazione della fiducia accordata ai partner locali, il progetto è stato rimesso nelle mani delle autorità ruandesi. «Continuiamo comunque a collaborare saltuariamente nel ramo della formazione», puntualizza André Laubscher, responsabile del progetto presso gli HUG.

Oltre ai 250 pazienti dell’ospedale, ogni giorno Ndera assiste ambulatorialmente un centinaio di persone. Il desiderio del direttore è di migliorare ulteriormente l’offerta. «L’ideale sarebbe di poter ospitare due persone per camera, invece delle attuali otto. Ma questo dipenderà ovviamente dalle nostre risorse».

Il Ruanda, sostiene fiducioso Jean-Michel Iyamuremye, è pronto per una sana competizione in tutti i settori. «Ognuno vuole dimostrare di poter fare il meglio. La salute mentale non fa eccezione».

Data l’interdipendenza storica, geopolitica ed economica del Ruanda, della Repubblica Democratica del Congo e del Burundi, la Svizzera ha adottato una strategia regionale in materia di cooperazione e di aiuto allo sviluppo.

Nel 2012, la Confederazione ha consacrato alla regione 37,7 milioni di franchi, soprattutto nel campo della sanità e del buon governo.

Dal 2013, i Grandi Laghi fanno parte delle regioni prioritarie della cooperazione svizzera. Sono portati avanti, tra l’altro, progetti di sviluppo economico, in particolare nel campo della formazione professionale, dell’agricoltura e della produzione ecologica di materiali edili.

Il Dipartimento federale degli affari esteri (DFAE) ritiene che «dopo i tragici eventi del 1994, il Ruanda ha ottenuto risultati notevoli in campo sanitario, educativo e agricolo. Ha proceduto a importanti riforme che hanno migliorato l’accesso della popolazione ai servizi di base».

Tuttavia, sottolinea il DFAE, «lo sviluppo economico e sociale non può avvenire a scapito di uno spazio democratico limitato, come evidenzia la tendenza osservata in Ruanda. La libertà di espressione continua in effetti a essere limitata e i media non possono svolgere appieno il loro ruolo».

Traduzione dal francese di Luigi Jorio

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