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L’incubo del camino

Giovani spazzacamini della Val Vigezzo dell'Ottocento Gottardo Cavalli

Molti bambini dei villaggi ticinesi e del Nord Italia trascorrevano il loro inverno tra la fuliggine dei camini delle grandi città di Lombardia e Piemonte. Ritratto di uno spazzacamino.

Spinte da ristrettezze finanziarie, diverse famiglie hanno obbligato i loro figli a lasciare le mura di casa durante i mesi invernali. I piccoli partivano verso città come Milano, dove erano accolti dalla grandiosità del Duomo e dalla crudeltà dei loro padroni.

Questi ragazzini tra i 6 e i 12 anni vivevano in condizioni di schiavitù e i maltrattamenti erano all’ordine del giorno. Malnutriti e costretti a dormire in locali non riscaldati, soffrivano pure della nostalgia di casa e della paura di rimanere soffocati in camini o cisterne.

Un decreto emanato dal governo ticinese nel 1873 impedì l’impiego dei minori di 14 anni quali spazzacamini; ciononostante, la pratica continuò, come evidenzia questo estratto del Diario di uno spazzacamino di Gottardo Cavalli (contenuto in Rabbia di vento di Alberto Nessi, Bellinzona, 1986)

Nel 1915, Cavalli fu l’ultimo bambino del suo villaggio di Intragna, sopra Locarno, a lavorare come spazzacamino. La prima volta andò a Mortara, a sud di Milano, accompagnato dal padre.

Talpe nel camino

Chi scrive, cinquant’anni fa, aveva quasi 8 anni quando partì con il proprio genitore. Si partiva volentieri, pur di evadere verso l’incognito senza l’ombra di cosa fosse la vera realtà. Lo sapevano però le mamme di questi ragazzi, compresa la mia.

Solo ora comprendo: non aveva più parole. Appena saliti sul treno e questo si è mosso, si è girata: più non ho visto il suo viso, ma posso immaginare solo ora cosa fosse per lei questo distacco.

Tanti ragazzi della mia età e forse più giovani hanno fatto questa esperienza. Chi scrive è stato l’ultimo del paese ad esercitare questo mestiere; solo per 2 anni, ma questi sono stati sufficienti per descrivere la vita, la sofferenza fisica di questi poveri esseri umani, ridotti come talpe ad entrare in tutti i buchi dei camini, nelle caldaie delle macchine a vapore, nelle ciminiere, mal nutriti, costretti a cercare in ogni casa un pezzo di pane per sfamarsi ed ancora mal vestiti costretti a dormire in una stalla, in un fienile o in una sosta in mezzo alla paglia.

Il freddo era il peggior nemico. Come riscaldarsi se non pigiandosi l’uno contro l’altro, ricoprendosi con quei 3 o 4 sacchi che servivano per portare la fuliggine.

Tante volte racconto cosa è fare lo spazzacamino; c’è tanta gente giovane che non ti crede; ci sono altri che comprendono; è stato appunto un amico mio che mi consigliò di scrivere la vita degli spazzacamini. Così mi sono deciso di scrivere perché questi due anni sono pieni, sono completi di episodi, di fatiche, di paura, di speranze, di fame. Scrivere non è difficile, non sono uno scrittore, ma in compenso, non dovrò inventare il mio romanzo. Sarà tutta una realtà, io non dovrò inventare nulla, tanto sono penetrato da questi ricordi.

L’arrivo dell’inverno

… Era appena giorno, tutta la città [di Mortara] si muoveva per andare al lavoro, quasi tutti a piedi, qualche bicicletta, qualche carriola (detta galiotta) nessuna macchina. La voce di mio padre che gridava «spazzacamino» era forse l’unico rumore che sovrastava tutti gli altri. S’affacciavano alla finestra, venivano sulla porta le comari (l’è rivaa al spazzacamin) segno dell’inverno…

… Eravamo entrati in una casa, mio padre mi assestò i vestiti. La giacca era di fustagno, senza tasche, doveva essere fatta entrare nei pantaloni e quindi insieme legati stretti alla cintura per impedire che scendendo dai camini stretti, la giacchetta non si arrotolasse all’insù. Un sacchetto di tela copriva la testa e veniva attorcigliato sotto il mento per resistere alla polvere; in una mano avevo la raspa, nell’altra lo scopino.

… Nessuno può immaginare quale impressione si può avere racchiusi in un buco, tutto buio, salire a forza di gomiti e di ginocchia, 10 o venti centimetri per volta.

… Ma più il camino era stretto, più ti senti soffocare, t’arriva addosso tutta la fuliggine, anche col sacco in testa devi respirare, non puoi scendere perché sotto c’è il padrone.

La “fortuna” dello spazzacamino

… Fuori da una casa, dentro all’altra, senza mangiare, così mi abituai, quasi obbligato, secondo l’usanza, a cercare un pezzo di pane in tutte le case. Quando non si aveva più fame si chiedeva un bicchier di vino per far andar giù la polvere che noi fingevamo di bere, ma che poi lasciavamo sul tavolo affinché il padrone, quando veniva a prendere la fuliggine potesse berlo.

… Finita la prima settimana, mi trovai al sabato sera completamente esaurito, sfiduciato, conscio della terribile realtà, con le ossa rotte, con le giunture delle dita che sanguinavano.

… Il pomeriggio con i miei compagni di sventura, girammo per la città: Piazza Duomo, Piazza Mercato, la stazione… sempre sotto gli sguardi incuriositi dei ragazzi e delle mamme che ammonivano i loro bimbi dicendo: «Se non farai il bravo, ti porta via lo spazzacamino».

Quel giorno [Natale], come il primo dell’anno non mangiammo polenta… eravamo invitati, com’era l’usanza, a casa di un conte o di un ricco proprietario… non era permesso lavarci la faccia, dovevamo servire da porta fortuna, sedersi ad un tavolo con tovaglia bianca, con tutti i cibi che si voleva… non una parola che avesse senso, che comprendesse la nostra misera situazione. Ben più valeva quel pezzo di pane o il piatto di minestra che ci veniva dato da povera gente… dato con spontaneità, senza nulla pretendere… invece quei ricchi pretendevano con quel pranzo, fortuna e chi sa quali altre cose.

Più tardi, in gennaio cominciarono le lunghe peregrinazioni… non si ritornava più in città, ma si dormiva dove si arrivava, in una stalla e allora si era fortunati, od in un fienile.

… Da una fattoria all’altra, da un paese all’altro, sempre la medesima storia. Il nostro nemico peggiore era il freddo; la neve l’ho vista in due anni solo una volta, ma la nebbia e la brina erano di casa… era un freddo umido che ti penetrava nelle ossa.

Ancora oggi dopo cinquant’anni mi capita di sognare d’esser in un cunicolo stretto, buio, polveroso, con la testa avvolta in un sacco… mi sembra d’asfissiare e mi sveglio…

Fino alla seconda metà del 20. secolo, in molte regioni della Svizzera la politica assistenziale prevedeva il collocamento d’ufficio di bambini in condizioni disagiate presso famiglie di contadini.

La pratica era diffusa soprattutto nei cantoni protestanti della Svizzera tedesca e nel canton Vaud. In Ticino, molti bambini poveri venivano invece mandati a lavorare come spazzacamini in Italia.

Secondo le stime, quest’ “opera assistenziale” avrebbe coinvolto decine di migliaia di bambini, in particolare orfani, figli illegittimi o di genitori divorziati.

Molti minori furono trattati come schiavi, umiliati, picchiati e violentati, senza che le autorità intervenissero.

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