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“Custodi di guerra” e la ricognizione della memoria

Custodi di guerra, un lavoro sulla memoria attraverso il presente

"Custodi di guerra" del regista Zijad Ibrahimovic, ci porta a Kozluk, cittadina bosniaca ai confini della Serbia. Un'occasione per Micheline Calmy-Rey di parlare delle vittime della guerra al Festival internazionale del film di Locarno.

Seminare domande come atto e spazio di libertà. E’ uno di poche parole, Zijad Ibrahimovic, che incontriamo poco prima della proiezione del suo film Custodi di guerra. Riservato, riflessivo, pondera ogni sua parola. Nessuno spreco, nessuna ridondanza. Asciutto.

Il film Custodi di guerra, inserito nella sezione Ici & Ailleurs, ci riporta a Kozluk, cittadina bosniaca ai confini con la Serbia. Oggi Kozluk è quasi del tutto abbandonata, solo alcuni vecchi vivono tra le macerie in attesa della morte.

L’unica attività fiorente sono i funerali dei tanti emigrati che desiderano essere seppelliti nella loro terra natale. “Perché filmare un funerale”? Chiede nel film una figlia al padre. “Perché filmare le nostre lacrime”? Forse perché chi ha perso tutto le lacrime non le ha più.

Un lavoro sulla memoria

Il film è lento, si sofferma a lungo sulle inquadrature, quasi a rafforzare il minuzioso lavoro di ricognizione: le foto sbiadite sulla carta da parati a fiori, le crepe sui muri e quel che resta. I ricordi si sovrappongono alle immagini logorate di una vecchia videocassetta, copiata più volte. Copiata così tante volte da sembrare un dipinto impressionista. Le case, le persone, le strade sembrano fondersi e confondersi. C’è qualcosa di astratto, sospeso tra il ricordo di un paese tranquillo e il presente di un paese lacerato.

“La memoria della guerra è pericolosa. Forse bisogna parlare così tanto per poterci passare sopra. Farla sbiadire”. E’ soltanto uno dei passaggi in cui si nomina esplicitamente la memoria. La narrazione che propone Zijad Ibrahimovic, che si distanzia dalla cronaca di quei tragici eventi, si muove sul piano del collettivo. Attraverso il racconto di una vicenda personale, si rispecchia il vissuto di migliaia di persone, dei loro lutti, delle loro separazioni. Ma anche della vita che va avanti.

Tornato nel proprio paese dopo la fine della guerra, il protagonista del film si confronta con il significato e il valore di parole come casa, origine, fuga, guerra, esilio, futuro, pace. Che senso ha tutto questo? Custodi di guerra è un film che invita a porsi delle domande. “Mi interessava mostrare che cosa rimane adesso alle persone e nelle persone. E’ questo – spiega a swissinfo il cineasta – l’interrogativo che ha guidato il mio lavoro. Che cosa rimane alle persone? Leggende? Memorie? Pene? Di sicuro rimangono le tracce della pace, non del sangue, perché per sopravvivere devi lasciare molte cose al passato”.

Lasciare alcune cose al passato, affinché le custodisca, non significa però dimenticare. “No, il dolore ti rimane sempre dentro, ma diminuisce, cambia. E’ come un profumo, con il passare del tempo diminuisce di intensità, ma ti resta addosso”.

Raccontare la guerra oltre la guerra

Giunto in Ticino nel 1992, quando nella ex Jugoslavia è scoppiata la guerra, Zijad Ibrahimovic se le ricorda bene le immagini dei racconti di guerra quotidiani. “In questo film ho voluto raccontare la guerra senza mostrarne il lato violento che tutti conosciamo. Ho volutamente scelto di eludere le immagini violente riprodotte sui giornali e veicolate dalla televisione. Ho voluto tentare di utilizzare la memoria dello spettatore e su quella costruire una narrazione che dia la libertà di interpretare e criticare. Perché solo così lo spettatore potrebbe diventare il protagonista del film”.

In Custodi di guerra, in fondo, ogni spettatore può immedesimarsi nel protagonista. La narrazione, fatta piuttosto di tracce, indizi, punti di riferimento, accenni, consente l’elaborazione di una propria mappa mentale, di un proprio percorso nei ricordi. Paralleli e meridiani che uno percorre attraverso le immagini e le parole, scandite lentamente.

“Con il mio film ho cercato di parlare del dolore della guerra senza mostrare le immagini di quegli orrori. E’ una questione di finezza e in un certo senso anche di rispetto nei confronti di chi l’ha vissuta. Non è stato facile, nemmeno per me. Ma la vita deve andare avanti. La sofferenza te la porti dentro, ma cerchi comunque di andare avanti”.

Le vittime e le Convenzioni di Ginevra

“Beato chi ha avuto una buona morte. Da queste parti è diventato un modo di dire”. Un passaggio del film molto eloquente che evoca le migliaia di vittime innocenti a cui si è agganciata la consigliera federale Micheline Calmy-Rey che ha assistito alla proiezione del film: “Le Convenzioni di Ginevra, nate per volontà di Henry Dunant scosso dagli orrori della battaglia di Solferino, riguardano le vittime della guerra”.

“Ma questo strumento è ancora attuale”?, si è chiesta la direttrice de Dipartimento federale degli Affari esteri. “Oggi le guerre mietono sempre più vittime tra i civili rispetto ai soldati. Basti pensare a Gaza, al Congo, al Sudan. Sono abbastanza chiare le Convenzioni di Ginevra? Sono sufficientemente applicate”?

La consigliera federale, introducendo un dibattito al termine della proiezione, non ha nascosto un sentimento di impotenza. Tanto da chiedersi se esiste la volontà politica di applicare uno dei cardini del diritto umanitario internazionale in un mondo dove ci sono sempre più vittime di cui non si sente nemmeno la voce.

Françoise Gehring, Locarno, swissinfo.ch

Un uomo torna al suo paese per un funerale: hanno trovato i genitori in una fossa comune. Tornare dopo vent’anni significa cercare delle risposte.

La guerra però non lascia risposte, lascia domande. La casa dalla quale era partito è stata vissuta da altri, poi è stata abbandonata. Porta sui muri i segni della violenza e del ricordo.

Il regista confronta questa situazione disperata con un vecchio filmato della cittadina girato negli anni Ottanta su supporto VHS.

Si tratta in pratica di una «videolettera» inviata da un abitante di Kozluk ad uno zio che, dall’Australia, gli aveva chiesto di poter vedere per un’ultima volta il paese casa per casa, dato che non avrebbe più potuto tornarci di persona.

Zijad Ibrahimovic è nato nel 1978 a Loznica (ex-JU). Vive in Ticino (Svizzera) dal 1992, dall’inizio della guerra nei Balcani.

Frequenta il Conservatorio Internazionale di Scienze Audiovisive (CISA) a Lugano dal 2004 al 2007, dove si diploma.

Nel 2005 realizza Come fate a vedere le rondini, documentario, BETA digitale, 25ʼ. Nel 2007 Anche i fiori a volte, documentario, BETA digitale, 15ʼ, film di diploma.

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