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“In Siria diventerà ancora peggio”

La protesta contro il regime di Assad si allarga in Siria, la repressione è brutale, la comunità internazionale non interviene Reuters

Nonostante la condanna del regime del presidente Bashar al-Assad ad opera del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, le uccisioni in Siria proseguono. Intervista al regista curdo-siriano Mano Khalil, che dal 1996 è in esilio in Svizzera.

Dopo lunghe discussioni di diversi giorni, il Consiglio di sicurezza dell’ONU il 3 agosto ha adottato una sorta di “risoluzione light”: in una dichiarazione letta dal presidente di turno, l’ambasciatore indiano Hardip Singh Puri, i 15 Stati membri hanno condannato le “diffuse violazioni dei diritti umani e l’uso della forza contro i civili da parte delle autorità siriane”.

Benché la decisione sia stata presa all’unanimità, diversamente da una risoluzione, una dichiarazione non ha carattere vincolante. Del resto, la delegazione libanese, si è rapidamente dissociata dal testo, per non irritare Damasco con cui Beirut ha tuttora stretti legami.

Il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon ha dal canto suo rivolto un nuovo accorato appello al presidente siriano Bashar al Assad, affinché fermi il bagno di sangue.

Ma il segnale inviato dalla comunità internazionale da New York a Damasco verrà semplicemente ignorato, prevede sconsolatamente Mano Khalil.

I recenti avvenimenti sembrano confermare i suoi pronostici: secondo quanto riferito da attivisti dei diritti umani, negli ultimi due giorni ad Hama, roccaforte della protesta, sono state uccise una quarantina di persone da colpi di mitra e carri armati.

Khalil non è peraltro l’unico ad avere questa opinione. “La risposta del Consiglio di Sicurezza dell’ONU è assolutamente insufficiente”, ha detto Daniel Graf della sezione svizzera di Amnesty International (AI). L’organizzazione per la tutela dei diritti umani chiede perciò all’ONU di agire in fretta, sulla base di una posizione chiaramente definita e giuridicamente vincolante.

Questa, per AI, deve comprendere un embargo sulle armi, il congelamento degli averi all’estero del presidente al-Assad e di altri responsabili, sospettati di crimini contro l’umanità.

Importante canale all’estero

Nonostante il 47enne Mano Khalil da 18 anni non abbia più avuto il permesso di tornare in Siria – anni fa ha girato un film critico sulla situazione dei curdi in Siria – è continuamente in contatto telefonico e per internet con familiari, amici e conoscenti nel paese.

Poiché gode di fama internazionale, Khalil è anche diventato una persona di riferimento importante per i manifestanti di un paese isolato.

“Dato che ho un sacco di amici su Facebook, la gente mi manda videoregistrazioni di proteste in Siria, riprese con il proprio cellulare, in modo che io possa diffonderli”, spiega a swissinfo.ch Khalil, raggiunto al telefono, mentre si trova in una regione montuosa in Turchia. Lì sta attualmente reperendo luoghi per le riprese del suo nuovo progetto di film documentario.

Impossibile indagare nel paese

Il numero dei manifestanti finora uccisi dalle forze di sicurezza siriane, secondo Khalil, supera decisamente i 2’000. I dati forniti da organizzazioni dei diritti umani sono inferiori. AI ha registrato i nomi di oltre 1’500 siriani, segnalati come morti dall’inizio delle proteste a metà marzo.

La determinazione del numero delle vittime è resa difficile dal fatto che Assad, da un lato controlla tutti i media locali, dall’altro ha praticamente espulso quasi tutti i giornalisti stranieri e impedisce di entrare ai rappresentanti di organizzazioni dei diritti umani.

Organizzazioni come Amnesty si basano quindi principalmente su persone che sono fuggite in Turchia o in Libano. Per chiarire i fatti difficili da verificare, Amnesty International chiede ad Assad di autorizzare una commissione indipendente d’inchiesta ad entrare nel paese.

I giovani non sono più contenti

Riguardo allo spargimento di sangue, Mano Khalil è convinto che non solo continuerà, ma che è persino destinato a peggiorare. “La giovane generazione si ribellerà, perché vede il mondo esterno tramite Facebook. I giovani sanno che la gente in altri paesi ha una vita decente e adesso chiedono la stessa cosa per se stessi”, dice il regista, descrivendo lo stato d’animo di molti giovani connazionali.

Gli esuli siriani sono profondamente addolorati non solo dal bagno di sangue nella loro patria, ma anche dalla tiepida reazione della comunità internazionale. “Per noi siriani – curdi, musulmani o altri – è quasi inconcepibile che gli Stati Uniti e l’Occidente, ma anche altri paesi arabi, stiano a guardare la brutalità del regime siriano”, si lamenta. “La tragedia è che il popolo siriano nel mondo non trova amici”.

Islamici armati come chimera

Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama sostiene Assad nel timore che gli islamici potrebbero prendere il potere, perché ciò rappresenterebbe una minaccia per la regione.

“Ma in Siria non ci sono né islamici armati né altri gruppi armati, bensì solo persone che vogliono la libertà”, dice Khalil. Secondo il regista, riforme politiche, come l’introduzione di un nuovo partito e di una legge elettorale, che Assad ha annunciato giovedì, sono nient’altro che “ritocchi estetici”.

L’uomo della settima arte esige dalla comunità internazionale un intervento militare, come si fece nella guerra nell’ex Jugoslavia e si sta facendo attualmente contro Gheddafi in Libia.

Denuncia all’Aja

“Perché l’Onu ha approvato una risoluzione che autorizza il bombardamento dei palazzi di Gheddafi e la fornitura di armi agli insorti, mentre nel caso della Siria la comunità internazionale aspetta, argomentando che Bashar porta la democrazia il paese?”, chiede Khalil. Oltre all’intervento militare, il regista chiede anche che Assad sia processato davanti al Tribunale penale internazionale (TPI) dell’Aja.

“Ci sono fra gli altri un video che mostra come Maher al-Assad (comandante dell’esercito) ha filmato con il suo cellulare un massacro compiuto dai soldati intorno a lui”, racconta Khalil.

Anche Amnesty International domanda che le Nazioni Unite portino il caso della Siria davanti al TPI.

Nonostante che Washington e Mosca giovedì abbiano alzato il tono con il regime di Assad, il desiderio di Mano Khalil e di molti suoi compatrioti, che cada il governo di Assad, probabilmente non sarà presto esaudito.

Per l’opera “Il nostro giardino dell’Eden“, nel 2010, Mano Khalil ha ricevuto il secondo Premio del film di Berna, dotato di 20mila franchi.

Nella pellicola ha documentato la coesistenza e la collaborazione di persone di culture diverse nei cosiddetti “giardini familiari”, alla periferia di Berna. Anche i siriani in esilio nella regione della capitale federale elvetica coltivano una piccola parcella di terra.

Nel suo prossimo documentario, Khalil vuole presentare il ritratto di un apicoltore curdo. Dopo aver perso tutto ed essere dovuto fuggire in Svizzera, il protagonista ha iniziato l’attività di apicoltore a Basilea. In estate l’uomo trasporta le arnie con le api nelle Alpi urane.

Khalil prevede di concludere le riprese nel giro di un anno.

I rapporti politici tra la Svizzera e la Siria non sono molto intensi. Anche le relazioni commerciali sono modeste, anche se si sono intensificate negli ultimi anni.

La Svizzera esporta soprattutto macchine, prodotti farmaceutici e chimici.


Dal 2005, la direzione dello sviluppo e della cooperazione (DSC) ha un ufficio regionale a Damasco. La Siria è coinvolta nel progetto regionale ” Mashreq” della DSC. Il programma intende favorire la creazione di posti di lavoro e migliorare la protezione dell’ambiente.

L’aiuto umanitario della Svizzera è rivolto soprattutto ai rifugiati palestinesi che vivono nei campi profughi in Siria.

Nel 2009, in Siria vivevano 196 svizzeri, di cui 148 con la doppia nazionalità. Nello stesso anno, erano invece 1023 i cittadini siriani a risiedere in Svizzera.

Una superficie

di 185’180 km2 (Svizzera: 41 290 km2) per 21 milioni di abitanti.

Una popolazione composta di arabi (89%), curdi (6%), armeni (2%), cerchessi e assiri (3%).

Una diversità religiosa
suddivisa in sunniti (72%), alawiti (12%), cattolici e protestanti (6%), cristiani ortodossi (4%), druzi (3%), sciiti (3 %).

(Fonte: Courrier International e Le Temps)

(traduzione dal tedesco: Sonia Fenazzi)

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