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Croazia, terra di splendori e lesioni

Dubrovnik, una delle più belle città del Mediterraneo. Il centro storico è iscritto nella lista del matrimonio mondiale dell'Unesco dal 1979. Keystone

La Croazia entra nell'Unione europea il 1° luglio, vent'anni dopo la guerra, con il suo patrimonio naturale, le sue ricchezze culturali e le sue ferite mal cicatrizzate. Diario di viaggio in sette giorni e 1000 chilometri da un estremo all'altro del paese, dagli splendori di Dubrovnik alle ferite di Vukovar.

Tra i verdi e i turchesi della costa della Dalmazia, all’estremità di un promontorio roccioso che si protende verso il mare, la perla dell’Adriatico non può essere accusata di aver rubato il suo nome. “Chi cerca il paradiso in terra deve venire a Dubrovnik”, scriveva nel 1929 George Bernard Shaw. Questo paradiso è prima di tutto di pietra. Estratta, plasmata, assemblata dall’uomo attraverso i secoli. Pietra grezza in tutta la sua forza e sobrietà, decorata su chiese e palazzi con merletti e statue gotiche e barocche. E per terra, una pavimentazione tirata a lucido da 1400 anni di deambulazioni umane, sulla quale si slitta a tradimento.

Ragusa, repubblica millenaria

“La libertà non si vende nemmeno per tutto l’oro del mondo”, enuncia il motto dell’antica Ragusa, fondata 120 dopo la caduta di Roma. Per preservarlo, la città ha edificato il più impressionante sistema di fortificazione tuttora visibile nel Mediterraneo. Un quadrilatero di 400 metri per 400; ancora migliaia di tonnellate di pietra. Ragusa è stata la Repubblica d’Europa che ha retto più a lungo. Più di Venezia, la sua grande rivale. Ha resistito a tutti gli invasori, prima dell’occupazione napoleonica e in seguito austriaca. Oggi è patrimonio mondiale dell’Unesco.

Scorcio del centro storico di Dubrovnik. swissinfo.ch

«Senza il turismo, qui non siamo nulla. In inverno ci sono tre voli al giorno, tutti domestici, mentre in estate ce ne sono una sessantina, provenienti da tutta Europa», afferma Pero, che noleggia automobili all’aeroporto. 

A tutti questi visitatori, che in estate possono rendere la via principale affollata come un binario di metrò all’ora di punta, Ragusa-Dubrovnik non offre soltanto le sue meraviglie. La città non vuole che si dimentichi ciò che ha passato. Nel corso dei secoli, certo; anche se ciò fa ormai parte della storia. Ad essere ancora impressa nelle memorie, è la selvaggia guerra di indipendenza che tra il 1991 e il 1995 ha visto scontrarsi la Croazia con ciò che restava della grande Iugoslavia.

Fin dalla prima stazione del giro turistico delle mura, l’audio guida ricorda “la barbarica aggressione serbo-montenegrina”. Il tema tornerà a più riprese. A tutte le entrate della città, una cartina dettagliata mostra ogni traccia lasciata dalle granate, ogni incendio, ogni tetto distrutto. Senza dimenticare i 114 martiri, i cui ritratti sono esposti in una galleria. E i memoriali, i cerini, le corone di fiori, i manifesti, le esposizioni.

Primavera 1992: il centro storico di Dubrovnik durante il secondo assedio. Thomas Kern, swissinfo.ch

Bellezza selvaggia

Da Dubrovnik, all’estremità sud-orientale del paese, si costeggia il mare dalle 1165 isole. Sorpresa! Qui la natura è ancora vergine. Non c’è praticamente segno della cementificazione alberghiera che gli investitori russi hanno inflitto al vicino Montenegro. Il turista alloggia più che altro presso la popolazione locale, i cartelli “Apartment” e “Sobe” (camere) spuntano come funghi.

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Bombardamento e assedio di Dubrovnik

Questo contenuto è stato pubblicato al Il 1° ottobre 1991 la popolazione viene tagliata fuori dal mondo, senza più elettricità, acqua e allacciamento telefonico. Dal mare, le navi da guerra serbe bloccano ogni accesso alla città. I combattimenti più feroci hanno luogo il 6 dicembre 1991. Nello spazio di un unico giorno, le truppe serbe lanciano 600 granate, nell’intento di scacciare…

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«Abbiamo avuto la fortuna di non aver denaro», esclama ironicamente Zeljko Jembrih, un ingegnere che ha lavorato per la cooperazione svizzera. Più diplomaticamente, l’ambasciatore elvetico a Zagabria Denis Knobel rileva che «la guerra ha rallentato lo sviluppo turistico». Dal canto suo, Pero spera che «l’entrata della Croazia nell’Unione europea attiri gli investitori, portando posti di lavoro e forse anche salari più alti». Oggi col suo lavoro in aeroporto guadagna 700 euro al mese.

Gli investitori dovranno però fare i conti con lo spirito ecologico locale. L’ultimo fine settimana di aprile si è infatti tenuto un referendum contro la prevista costruzione di un complesso immobiliare di lusso e di un campo da golf da un miliardo di euro nella regione di Dubrovnik. «È un evento raro per i Balcani. Rappresenta il culmine di una resistenza feroce», fa notare l’ambasciatore Knobel. Soltanto il 31,5 per cento dei cittadini si è però recato alle urne, contro il 50 per cento minimo previsto dalla legge. I promotori israeliani potranno dunque costruire quello che Zeljko chiama ormai il loro «ghetto per milionari».

Knin, la fortezza perduta

Lasciata la costa, ci si addentra nell’entroterra. Vaste distese di sassi e vegetazione verdeggiante, dalle quali spuntano, sparpagliati qua e là, blocchi di pietre monumentali. I villaggi si fanno sempre più diradati. Ormai non resta che qualche gruppo di due o tre case, spesso abbandonate, indicate diversi chilometri prima da cartelli gialli. Segnali insoliti di una presenza umana in mezzo al nulla. E verso l’infinito corre solitario il binario di un treno.

Keystone

Knin, ai piedi delle montagne. Sulla strada verso la Bosnia, il borgo sonnecchia all’ombra di un forte che carezza la collina da almeno mille anni. Prima della guerra, qui viveva una maggioranza serba. Knin, antica città reale croata, era diventata l’effimera capitale della repubblica di Krajina. Dopo la riconquista, non tutti i serbi che erano fuggiti sono tornati, rimpiazzati così da croati di Bosnia. Ovunque la stessa storia: in Croazia, in Bosnia, in Kosovo. La guerra allontana popolazioni da ambo le parti e quando le armi tacciono e la frontiera si innalza, sono in molti a non volerla oltrepassare per tornare dal nemico di ieri. Non è facile in queste condizioni restituire gli alloggi ai legittimi proprietari.

In città, l’ambiente è piuttosto cupo. Marija, la cameriera di un bar che si affaccia sulla dissestata via della stazione, ha un unico termine per esprimere le sue aspettative nei confronti dell’Ue. «Nessuna!». E gli investimenti? «Sappiamo bene in quali tasche finiranno….». Saprà la giovane Marija che poco più in là, quella casa di un arancione quasi pimpante in mezzo a palazzi in rovina è stata ricostruita con fondi svizzeri?

La Direzione dello sviluppo e della cooperazione (DSC) ha stanziato 24 milioni di franchi in questa regione dopo la guerra. Per ricostruire case, scavare canali d’irrigazione, sostenere cooperative agricole o comprare ambulanze. Ma Zeljko, che ha ormai il suo ufficio di consulente a Zagabria con l’amico e chimico Igor Sustic, si chiede se la scelta delle priorità sia stata davvero quella giusta. «Avremmo dovuto ricostruire prima le fabbriche. Dopo tutto, la gente aveva già un posto dove dormire. Sarebbe stato meglio dar loro un lavoro prima di un nuovo tetto». Anche perché qui il futuro non è certo roseo.

Eppure, Knin è la città croata con più giovani e bambini. «È naturale, spiega Igor Sustic. La gente è senza lavoro e con quattro bambini, possono vivere degli assegni familiari». I bambini giocano a palla sotto l’arco del memoriale ai martiri dell’indipendenza, unico monumento lucente in mezzo a tanto grigiore.

L’importanza di non dimenticare…

Ante Gotovina – Heroj!

La Croazia non dimentica nemmeno il suo generale. Impossibile sfuggire alla sua immagine: sul ciglio delle strade, sui muri e perfino sulle tazze vendute nel negozio di Anna, a Zagabria. Per lei è semplice: «Ante Gotovina ha liberato il paese. È un cavaliere».

Keystone

La sua vita è un vero e proprio scenario da film d’azione. «Ex membro della Legione straniera francese, ex mercenario legato all’estrema destra francese, istruttore di paramilitari in America latina, Ante Gotovina ha uno spesso dossier criminale: rapine a mano armata, presa di ostaggi, estorsione di denaro. Un reato, quest’ultimo, per il quale sarà condannato dalla giustizia francese», riassume il sito internet Courrier des Balkans.

Dal 1991, Gotovina scala la gerarchia del nuovo esercito croato. Nel 1995 l’operazione di riconquista battezzata “Tempesta” fa di lui un eroe. Ma non esistono guerre pulite. Nell’aprile 2011, il Tribunale penale internazionale (TPIY) per l’ex Iugoslavia lo condanna a 24 anni di prigione per crimini di guerra. Poi nel novembre 2012, al processo d’appello, lo stesso TPIY lo proscioglie da tutte accuse. Scoppia l’indignazione a Belgrado, anche tra gli antinazionalisti. La svizzera Carla del Ponte, ex procuratrice del TPIY, ritiene che la sentenza rimetta in questione la credibilità stessa del tribunale. È vero che finora ad essere condannati sono stati praticamente soltanto i serbi.

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Il caso non è però ancora chiuso. A inizio giugno, il procuratore del TPIY Serge Brammertz ha ammesso «gravi errori» nella serie di assoluzioni intervenuta negli ultimi anni e si è impegnato a riaprire alcuni dossier. In particolare, Serge Brammertz sta studiando la possibilità di chiedere una revisione del processo Gotovina.

«I lavori della giustizia internazionale sono tuttora in corso. Spetterà anche agli storici giudicare», afferma Denis Knobel. Questo nazionalismo estremo non fa rabbrividire un po’ l’onorevole ambasciatore? «Di primo acchito ci si potrebbe credere in Europa… Non dimentichiamoci però che le mentalità delle persone hanno bisogno di molto più tempo per cambiare».

Vukovar, città martire

Il viaggio prosegue. Dalla costa, una strada attraversa le modeste Alpi Dinariche prima di giungere nella vasta pianura della Slavonia. Sotto un cielo immenso – come da consuetudine nei paesi pianeggianti – il paesaggio di campagna assomiglia a un bocage alla francese e i villaggi di strada si estendono per chilometri lungo la via rettilinea.

Al termine della strada si trova Vukovar, porta sul Danubio, che segna ormai la frontiera con la Serbia. Vukovar, che nell’estate del 1991, quattro anni prima di Srebrenica, ha vissuto sulla propria pelle le peggiori atrocità commesse su suolo europeo dopo la Seconda guerra mondiale. Tre mesi di assedio uno contro venti, un bilancio di 1100 morti tra i serbi e 5000 tra i croati. Una sinistra epurazione etnica, decine di migliaia di rifugiati e gli splendori barocchi di una città, un tempo multiculturale, ridotti a un mucchio di macerie.

L’incubo di Vukovar è durato tre mesi, preludio del decennio di guerra che vivrà la regione dei Balcani. swissinfo.ch

Oggi il fiume di denaro investito nella ricostruzione è visibile a occhio nudo. I monumenti sono come nuovi, ma le facciate dipinte nascondono con difficoltà le ferite. Il battello che collegava le due rive del Danubio è stato rimesso in servizio una volta sola, nel novembre 2010, dal presidente serbo Boris Tadic venuto a presentare le scuse del suo paese per i crimini commessi vent’anni prima.

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Busi, un’isola incontaminata e lontana dall’Europa

Questo contenuto è stato pubblicato al Dopo la Seconda guerra mondiale, l’isola è stata dichiarata zona militare e ne è stato vietato l’accesso agli stranieri. La maggior parte degli abitanti si trasferirono dunque in altre città della Croazia oppure emigrarono, in particolare negli Stati Uniti. Questi decenni di isolamento forzato hanno però avuto un impatto positivo sull’ecosistema dell’isola: Busi (in croato…

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A inizio anno, decine di migliaia di croati hanno manifestato a Vukovar e Zagabria contro la reintroduzione dell’alfabeto cirillico nella segnaletica stradale. Di fatto, Vukovar conta ancora quasi il 35 per cento di serbi e la legge impone il bilinguismo non appena una minoranza supera la soglia del 33. Una coalizione di ex combattenti e di partiti di destra chiede una moratoria da 30 a 50 anni sul bilinguismo e il 29 aprile, il cardinale arcivescovo di Zagabria Josip Bozanic è giunto fin qui per portare il suo sostegno alla causa. «Vukovar merita una sensibilità speciale, che dovrebbe esprimersi con norme ad hoc su alcuni soggetti sensibili», ha detto sua eminenza.

Il monumento che Vukovar ha costruito in memoria delle “vittime della Croazia libera” è già bilingue. Salvo che la seconda iscrizione invece di essere in cirillico è in glagolitico, l’antica lingua croata che i preti del Medioevo usavano nei loro uffizi al posto del latino, grazie a un’autorizzazione speciale ricevuta direttamente dal Vaticano.

L’economia in rovina

Attorno a Vukovar, le cicatrici sono ancora visibili. Fattorie e fabbriche in rovina, campi incolti, borghi disabitati. La Slavonia, che un tempo era il granaio dell’ex Iugoslavia, oggi vive sotto il livello medio della Croazia. «Un bello spreco, sospira Zeljko Jembrih.  La Slavonia è quasi morta, i contadini invecchiano, i giovani partono, mentre potremmo produrre a sufficienza per sfamare cinque volte il paese. Esistono però potenti lobbying di import-export che comprano i prodotti locali e li rivendono a caro prezzo nell’Unione europea».

AFP

E con l’adesione? «Sarà anche peggio, risponde l’ingegnere che nel 2012 aveva votato contro. L’Unione ci ha ricattati. Guardate gli ungheresi, sono diventati delle specie di schiavi. E la Bulgaria? Produceva della frutta eccellente mentre ora si ritrova costretta ad importarla».

Meno pessimista, l’ambasciatore Knobel sottolinea che l’economia croata – che con l’indipendenza ha perso il mercato interno iugoslavo – «resta vulnerabile agli choc esterni. Il paese ha adottato riforme strutturali e deve aumentare rapidamente le propria competitività. Il governo prevede una ripresa a partire dal 2014 grazie anche al fondo di coesione garantito dall’Ue [al quale partecipa anche la Svizzera, ndr]».

«Ma a cosa ci servono questi investimenti, se poi gli utili se ne vanno all’estero?», afferma senza mezzi termini Zeljko, secondo cui l’apertura delle frontiere provocherà una fuga in massa dei croati più qualificati. Lui, invece, non è candidato all’emigrazione. Non più del suo collega Igor Sustic almeno. «Non siamo ottimisti, ma lavoriamo duro», puntualizzano i due uomini.

Un sentimento che sembra ampiamente condiviso. Che si chiamino Nevenka, Zravko, Ana, Roman, Bojka o Branko, in sette giorni non ho incontrato nessun cameriere, studente, commerciante o centralinista che sogna un eldorado europeo o elvetico. I giovani, piuttosto scettici o perfino ostili all’Ue, sono prima di tutto croati. E i croati amano il loro paese.

E la loro capitale.

Zagabria è anche il luogo in cui ho appuntamento con Mario, veterano di Vukovar. Ne è passato di tempo dall’ultima volta che l’ho incontrato.

 

Flashback. 1974. C’era una volta un paese chiamato Iugoslavia. Ed è stato Mario il primo a farmi vedere la polveriera balcanica sotto la vernice federalista. Ha 23 anni, io soltanto 15. Venuto a lavorare in una cava della Valle del Rodano, affitta una camera dai miei genitori. Neodiplomato in diritto, parla francese, inglese, italiano e russo. Ed è venuto in Svizzera a spaccar pietre.

 

Mi insegna a giocare a ping-pong e ad ascoltare i Rolling Stones. Ma quando parla del suo paese, dai suoi occhi blu partono saette. Non si ride più. Nelle lunghe serata trascorse assieme, mi offre un corso di ripetizione di geografia e storia, versione nazionalista croata. Perché Mario è croato e non certo iugoslavo! Fiero d’esserlo e pronto a prendere le armi per difendere la sua patria.

 

Non sono parole al vento. Nel 1991, quando la Croazia proclama la sua indipendenza, Mario si arruola nelle truppe corazzate. Sarà promosso colonnello, in una guerra di cui non ha mai voluto raccontarmi nulla.

 

Questa sera, mi aspetta al secondo piano di un’imponente casa patriziale del XIX secolo nella quale è nato, nei pressi del parco principale di Zagabria. In fondo a un lungo corridoio dalle porte chiuse, sua moglie mi guida fino al suo ufficio. È una grande sala dal tetto alto, ma buia, come tutto l’appartamento di 150 m2 dove il tempo sembra essersi fermato.

 

Come è cambiato! È molto di più dell’oltraggio che il tempo infligge a tutti noi. «La mia testa è troppo piccola per tutte queste lingue», mi dice dispiaciuto per il suo francese un po’ zoppicante. E se la tua testa fosse troppo piccola per tutti questi orrori, mio vecchio amico?

 

Si dice sempre “ti capisco”, ma cosa ne sa di una guerra colui che non ne ha mai vissuta una? «Perché abbiamo fatto questa guerra?, si chiede Mario, lo sguardo perso nel vuoto. Mille anni fa avevamo un re. Oggi abbiamo un paese. E allora?». Un paese amputato: «La Bosnia è nostra». La Bosnia, questa grossa noce sulla mappa, come racchiusa in quella pinza che forma l’attuale territorio croato.

 

Mario non parlerà di Vukovar. Gotovina? Lo conosce personalmente. Risalendo cinque generazioni, hanno perfino un antenato in comune. Gotovina era il suo capo. È un eroe, senza dubbio. «Non era sul campo quando ci sono state quelle atrocità. Era in Bosnia. Ti ricordi Srebrenica? A Bihac, ha salvato la città accerchiata dai serbi. Se non fosse stato per lui, ci sarebbero stati 30000 morti e non 7000». L’Europa? Mario ha votato contro. «Fate bene voi svizzeri a restarne fuori». E il futuro? I suoi due figli lavorano come ingegnere e professore d’università, ma vivono in modo modesto e non hanno ancora famiglia.

 

E mentre inveisce contro i giovani che gridano per le strade la loro febbre da sabato sera, Mario – con mano tremante – finisce il suo litro e mezzo di birra da quattro soldi. «Vedi, mi sono ridotto a bere birra serba», dice con un sorriso amaro, che si fa più sonoro e forse un po’ folle quando sente la pioggia battere improvvisamente sul marciapiede. «È arrivata la primavera!».

Zagabria, città d’arte

«Una bella contadina che ha studiato scienze umane». La formula di Charles-Ferdinand Ramuz calza a pennello a Zagabria. Attorno alla cattedrale, piena di fedeli inginocchiati all’ora della messa, le vie tortuose e le case minute sono ancora quelle di un borgo medievale. Ai piedi della collina, Zagabria si pavoneggia quasi fosse la Vienna di Strauss. Con una sottile predilezione per le facciate gialle e i parchi dove si riversano i cani, animali così cari a quei paesi che invecchiano.

Dalla finestra del mio albergo al crepuscolo, vedo la grande vetrata di una scuola di danza. Un gruppo di giovani ragazze ripete i passi di jazz. Una performance professionale, intensa. Zagabria è anche città d’arte. Rigurgita di teatri, sale di concerto, musei, gallerie, scuole di musica. E il presidente Ivo Josipovic è un rinomato compositore di musica classica. I musicisti di strada propongono le canzoni locali, ma anche pezzi di Charlie Parker o Mark Knopfler. La sera della mia partenza, il fondatore dei Dire Straits suona tra l’altro all’Arena di Zagabria.

L’arte, vettore d’unione. Ma non bisogna dimenticare la più importante fonte d’orgoglio del paese: il calcio. In quarta posizione nella classifica mondiale della FIFA, la nazionale croata è di gran lunga la miglior squadra dell’ex Iugoslavia. E le sue star giocano nel Real Madrid, nell’Olympique Lyonnais o nel Bayern Monaco.

La grandezza di Roma

«In questo paese il calcio è l’unica cosa buona», mi dicevano ieri Igor e Zeljko. Davvero? Il loro calcio è bello, non c’è dubbio, ma la Croazia vale molto di più. E lo si nota anche dai piccoli dettagli.  

Il paese che ha inventato la cravatta ha strade incredibilmente pulite, gelati all’italiana, schiume di cappuccino da leccarsi i baffi, lampadine ecologiche e Wi-Fi gratuito un po’ ovunque, vasti parchi eolici, bistecche di manzo da far invidia, conducenti che spengono il motore al semaforo rosso e una popolazione cordiale, discreta e colta, come da tradizione negli ex paesi comunisti.

A Spalato, altra perla della costa dalmata, il cuore della città vecchia abbraccia il palazzo che Diocleziano, imperatore di Roma e figlio della Croazia, si fece costruire all’inizio del IV secolo per la sua vecchiaia. Roma, la prima Ue che assicurò all’Europa 500 anni di pace. Oggi, il vecchio continente non ha nemmeno trascorso 15 anni senza tumulti. Ma l’Europa è in cammino. E che lo voglia o no, la Croazia è parte dell’Europa.

«Già all’epoca del referendum sull’adesione [accettato dal 66 per cento dei votanti nel gennaio 2012], i croati non erano unanimi. Oggi dunque, visto la situazione dell’Ue, non sono comprensibilmente molto entusiasti all’idea di salire a bordo di una nave che fa acqua da tutte le parti», rileva André Liebich, professore all’Istituto di alti studi internazionali di Ginevra.

«Il problema per la Croazia, come per tutti gli altri paesi un tempo comunisti, è che non vi è alternativa, prosegue lo specialista dell’Europa centrale e orientale. Non esiste azione individuale per la Croazia. Allora ci si dice che bisogna andare avanti, che non sarà di sicuro peggio dentro che fuori».

«Per quanto riguarda i vantaggi concreti, la Croazia potrebbe diventare un po’ come la Spagna di trent’anni fa: una spiaggia per i ricchi europei del Nord. L’adesione faciliterà senza dubbio gli investimenti, ma è questo il destino che il paese si è scelto? Cosa ne sarà dei suoi punti di forza? Saranno tutti nel turismo e nel settore alberghiero? Non è una soluzione praticabile per un paese che vuole modernizzarsi e avere un’economia diversificata».

Non proprio ottimista, André Liebich osserva che l’unica Repubblica dell’ex Iugoslavia che ha finora raggiunto l’Ue, la Slovenia, «un vero modello, germanico nelle sue tradizioni e apparentemente protetto dalle correnti pericolose, ora sembra essere la prossima candidata a un aiuto straordinario. Dunque, se la Slovenia non ce la fa, quale futuro potrà avere la Croazia?».

«La Croazia è stata oggetto delle più severe trattative imposte finora a un paese candidato all’adesione. I negoziati sono durati oltre sei anni, ricorda l’ambasciatore svizzero a Zagabria Denis Knobel. La Commissione europea (CE) ha aggiunto altri temi di discussione, relativi alla giustizia, allo Stato di diritto e alla lotta contro la corruzione. Ed è proprio in questo ambito che la Croazia ha fatto i progressi più grandi. Una generazione di politici e un’intera classe di dirigenti economici sono state messe in prigione. Non è che la punta dell’iceberg naturalmente e ci sono ancora dei problemi a livello di base, del tessuto economico, ma questo processo – secondo la CE – è definitivo».

La CE afferma infatti nel suo rapporto finale sulla Croazia (ottobre 2012) che il quadro giuridico è stato istituito e che «gli organi incaricati di far applicare la legge restano proattivi, in particolare nelle più alte sfere».

Il cittadino comune attende comunque un’applicazione più severa delle leggi, già ampiamente modellate sul diritto europeo. «Abbiamo leggi eccellenti, ma non vengono rispettate», è il commento tipico quando viene affrontato questo tema.

Nell’indice di percezione della corruzione 2012 stabilito dall’ONG Transparency International, la Croazia arriva in 62esima posizione (sui 174 paesi censiti), con un indice di 45 (su una scala da zero a cento per il migliore). La Croazia si piazza dietro alla Slovenia (37esimo, indice 61), ma davanti a tutti gli altri paesi dell’ex Iugoslavia e soprattutto meglio di un altro vicino, l’Italia, che è anche il suo principale partner commerciale (72esimo, indice 42).

Relazioni economiche: Il volume degli scambi commerciali – modesto e orientato al ribasso – era di circa 300 milioni di franchi nel 2011. La Svizzera esporta soprattutto prodotti farmaceutici e macchine e importa macchine e prodotti a base di legno.

Fondo di coesione: Il governo proporrà al parlamento un contributo di 45 milioni di franchi, una somma proporzionale a quella attribuita ai dodici nuovi membri che hanno aderito all’Ue dal 2004.

Immigrazione: Sono circa 40000 i croati residenti in Svizzera. In Croazia vi sono invece circa 1300 svizzeri. Si tratta per lo più di uomini che hanno sposato donne croate.

Nessuna invasione in vista: Secondo l’ambasciatore svizzero Denis Knobel, «la maggior parte degli esperti non prevede un’importante emigrazione croata dopo l’adesione», anche se non si può escludere che esiste «una disponibilità latente nella popolazione, soprattutto tra i giovani». In Svizzera, inoltre, «la diaspora croata potrebbe svolgere un certo ruolo. E questo nei due sensi, dato che di recente il numero di croati che ha lasciato la Svizzera è stato più alto rispetto a quello dei nuovi immigrati».

Prudenza, nonostante tutto: La libera circolazione con la Svizzera, paese non membro dell’Ue, non è automatica. È il risultato di accordi bilaterali che devono essere adattati dopo ogni nuova adesione. Nel caso della Croazia, l’Unione democratica di centro (destra conservatrice) e gli ambienti nazionalisti, che avevano lanciato un referendum contro l’estensione della libera circolazione a Romania e Bulgaria (finalmente respinto da circa il 60 per cento dei votanti), hanno già minacciato di fare altrettanto con la Croazia.

(Traduzione dal francese di Stefania Summermatter)

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