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Un accordo che portò un sentimento di giustizia

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Le grandi banche svizzere 15 anni fa raggiunsero un accordo negli Stati Uniti sui fondi in giacenza appartenenti a sopravvissuti all'Olocausto o a discendenti di vittime. Due diplomatici allora partecipi della vicenda su fronti opposti oggi concordano su un punto: fu fatta giustizia.

Nel 1996, Thomas Borer era un giovane aspirante diplomatico svizzero che lavorava al Ministero degli affari esteri a Berna. Madeleine Kunin era stata da poco nominata dal presidente Bill Clinton ambasciatrice degli Stati Uniti in Svizzera.

Entrambi sarebbero stati presto coinvolti in una crisi politica che per diversi anni avrebbe visto contrapporsi i rispettivi paesi.

In interviste separate con swissinfo.ch, i due ex ambasciatori espongono i loro punti di vista sulle cause della controversia sui conti in giacenza tra gli Stati Uniti e la Svizzera alla fine degli anni ’90.

Già nel 1945, la Svizzera era sotto la pressione degli Stati Uniti, che cercavano beni nazisti, rammenta lo storico Hans Ulrich Jost, professore emerito all’università di Losanna.

La Svizzera – e in particolare le banche svizzere – rifiutarono di dar seguito alle richieste di informazioni sui conti in nome del segreto bancario. In Svizzera nel 1946 regnavano una “critica chiaramente aggressiva” della politica americana così come la convinzione che la pressione dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti provenisse dalla comunità ebraica, e che questa avrebbe distrutto il sistema bancario elvetico, afferma Jost.

Ciò nonostante, in un allegato di un trattato elvetico-americano del 1946, la Svizzera accettò di condurre ricerche su beni ebraici depositati in banche elvetiche, precisa Jost. E negli anni successivi, in particolare negli anni ’60, il governo svizzero tentò di costringere le banche a indagare sulla questione. Ma le istituzioni finanziarie si opposero “a qualsiasi controllo delle attività”, sottolinea. “Il governo non insistette, e così arrivammo a quella situazione negli anni ’90”.

Partiti di sinistra e di destra hanno opinioni diverse sulla gestione della vertenza sui conti in giacenza, secondo Jost. Tuttavia negli anni ’90, la pressione degli Stati Uniti e delle organizzazioni ebraiche era talmente forte che la maggioranza dei politici svizzeri ha accettato una visione critica sulla Svizzera durante la Seconda Guerra mondiale.

Quando fu pubblicato il rapporto finale della commissione Bergier), venne visto come la difesa degli Stati Uniti e delle prospettive ebraiche. Secondo Jost, il governo ed il parlamento non hanno mai veramente discusso le conclusioni della Commissione indipendente di esperi, anche se avevano accettato il rapporto sin dal momento in cui era stata istituita la Commissione. “Questo è stato il primo segno che i politici stavano cambiando”, osserva Jost.

Negli ultimi dieci anni, prosegue, “c’è stato una sorta di colpo di coda, e ora siamo di nuovo in una situazione in cui la politica della Svizzera durante la Seconda Guerra mondiale è presentata in modo patriottico, non in un modo molto obiettivo”.

Lo storico cita l’esempio della richiesta dell’Unione democratica di centro (destra conservatrice) di stralciare “tutte le osservazioni critiche sulla politica svizzera” da un nuovo manuale edito per le scuole del cantone di Zurigo.

Prime avvisaglie

Nel 1995 a New York viene presentata una causa collettiva per conto del Congresso ebraico mondiale. I querelanti accusano le grandi banche svizzere di avere negato ai sopravvissuti all’Olocausto e agli eredi delle vittime l’accesso ai loro conti in giacenza.

In Svizzera non viene prestata grande attenzione alla questione. Secondo Thomas Borer, “in generale, i banchieri svizzeri e la Svizzera nel suo insieme erano profondamente convinti che tutti i problemi in sospeso nella Seconda Guerra mondiale fossero stati risolti dopo il conflitto”.

Ma non era così. Nell’agosto 1996, Madeleine Kunin entra in funzione all’ambasciata degli Stati Uniti a Berna. “La questione del ruolo della Svizzera durante la Seconda Guerra mondiale era scottante quando arrivai e mi occupò quasi ogni giorno, in un modo o nell’altro, per tutto il tempo che rimasi”, racconta.

Già all’inizio del 1996, il presidente della commissione bancaria del Senato USA Alfonse D’Amato aveva avviato audizioni sui conti in giacenza di vittime dell’Olocausto nelle banche svizzere. Queste ultime “impiegarono molto tempo prima di cooperare”, dice Madeleine Kunin. “Crearono grossi ostacoli burocratici per chi cercava di trovare un conto in giacenza”.

Poiché inizialmente l’attenzione era concentrata sui conti, il governo elvetico credeva che le richieste del Congresso ebraico mondiale dovessero essere gestite dalle banche, afferma Thomas Borer.

Nel maggio 1996, l’Associazione svizzera dei banchieri e diverse organizzazioni ebraiche creano una commissione paritetica composta di persone eminenti e guidata dall’ex presidente della Federal Reserve, Paul Volcker. Essa era incaricata di effettuare verifiche indipendenti, al fine di identificare i conti bancari svizzeri in giacenza.

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Inerzia elvetica

Nel frattempo, all’inizio dell’autunno 1996, il presidente americano Bill Clinton chiese al sottosegretario al Commercio Stuart Eizenstat di indagare sugli sforzi statunitensi e alleati per recuperare e restituire l’oro e altri averi saccheggiati dai nazisti durante la Seconda Guerra mondiale.

La tempesta si stava preparando. Ma ci volle un po’ di tempo prima che il governo svizzero riconoscesse il problema e reagisse.

“Non avendo alcun presidente, ma sette consiglieri federali, ossia sette ministri, il nostro sistema politico non è veramente adeguato per gestire le crisi politiche”, afferma Borer.

Il problema presentava aspetti storici, giuridici, finanziari, economici e di relazioni estere. Ognuno di essi è di competenza di un ministero diverso. “Così cinque o sei consiglieri federali erano coinvolti e ognuno di loro pensava forse che se ne sarebbero dovuti occupare gli altri”, dice Borer.

Alla fine se ne occupa il ministro degli affari esteri Flavio Cotti. Nell’ottobre 1996 viene istituita una task force per affrontare la questione. Alla sua testa è nominato Thomas Borer.

La Commissione indipendente di esperti Svizzera-Seconda Guerra Mondiale (CIE), guidata dallo storico svizzero Jean-François Bergier, fu istituita un decreto parlamentare il 13 dicembre del 1996. Alla CIE fu assegnato il mandato di eseguire “ricerche storiche e giuridiche sulla sorte degli averi giunti in Svizzera in seguito all’avvento del regime nazionalsocialista”.

La “Commissione Bergier” era composta di quattro membri svizzeri e quattro non svizzeri (Gran Bretagna, Israele, Polonia e Stati Uniti).

Il decreto parlamentare stabiliva che né il segreto bancario né altre disposizioni legali sull’accesso agli archivi potevano limitare le ricerche della CIE. La distruzione di documenti concernenti settori rilevanti per la CIE fu vietata. Per la prima volta furono così aperti agli storici archivi privati fino ad allora sempre rimasti inaccessibili.

In contropartita tutte le persone coinvolte nelle ricerche furono sottoposte al segreto d’ufficio.

Il governo s’impegnò a pubblicare integralmente i risultati.

Tra il 1996 e il 2002, la Commissione Bergier pubblicò una serie di rapporti, contenente più di 11mila pagine suddivise in 25 volumi. Il suo budget complessivo fu di 22 milioni di franchi.

Le conclusioni della CIE – che tra gli altri, confermavano che il governo svizzero e l’industria avevano collaborato con i nazisti, e che la Svizzera aveva respinto migliaia di profughi ebrei alle frontiere –furono uno shock per molti svizzeri.

La Confederazione passa all’azione

“La maggior parte del tempo ero in aereo, in volo verso New York, Washington, Londra, Israele e altre capitali”, ricorda Borer. Dal momento in cui il problema assume sempre più un carattere politico, l’attenzione mediatica cresce in continuazione. “Direi che dall’ottobre 1996, ogni giorno in Svizzera c’era un articolo di giornale o un reportage” su quel tema, afferma Borer.

Uno dei compiti della task force era di contrastare la pubblicità negativa generata dai media e dai politici negli Stati Uniti. In una testimonianza davanti alla commissione bancaria del Senato, nel maggio 1997, Borer assicura al senatore D’Amato che le verifiche della Commissione Volcker avevano “già cominciato a dare frutti e che, avevano promesso le banche, non sarebbe rimasto nemmeno un centesimo di vittime dell’Olocausto in banche svizzere”.

Nel frattempo, nel dicembre 1996, il parlamento elvetico aveva deciso la creazione di una commissione internazionale indipendente di esperti – presieduta dallo storico Jean-François Bergier – per studiare il ruolo della Svizzera quale centro finanziario nella Seconda Guerra mondiale. L’obiettivo della Commissione era quello di “trovare la verità storica”, precisa Thomas Borer.

Benzina sul fuoco

Il 7 maggio 1997, Stuart Eizenstat pubblica la sua versione della verità: un rapporto basato su circa 15 milioni di pagine di documenti declassificati e conservati alla National Archives and Records Administration (NARA). Tra le altre cose, descrive la Confederazione come “banchiere della Germania nazista” e afferma che la Svizzera e altre nazioni neutrali hanno beneficiato dei loro scambi e rapporti finanziari con i tedeschi e contribuito a prolungare lo sforzo bellico.

Borer ricorda la sua reazione. “Ebbi la possibilità di leggere il rapporto un giorno prima e rimasi scioccato. A quel tempo ero già uno specialista del ruolo della Svizzera nella Seconda Guerra mondiale. Le conclusioni di Eizenstat e soprattutto la sua sintesi politica, erano semplicemente sbagliati”.

Prima della pubblicazione del rapporto Eizenstat, “direi che la maggioranza degli svizzeri era favorevole a una soluzione di questo problema”, sottolinea Borer. Ma accusare la Confederazione di avere aiutato la Germania nazista “era troppo. Quindi l’opposizione in Svizzera è diventata molto, molto forte”.

Secondo Madeleine Kunin, gli svizzeri si sentivano trattati ingiustamente, ritenevano che la Svizzera non avesse fatto nulla di male. Comunque, non tutti gli svizzeri erano contrari alle investigazioni. “C’erano molti giovani che ritenevano che fosse venuto il momento di dibattere e discutere questo capitolo di storia della Svizzera”, osserva.

E le banche svizzere cominciarono a rendersi conto che la loro reputazione e il futuro economico erano minacciati: “alla fine credo che ci fosse collaborazione, ma c’era voluto molto tempo”, commenta Madeleine Kunin.

Nel luglio 1997 le banche svizzere pubblicarono sui giornali in tutto il mondo un nuovo elenco di conti bancari in giacenza, che avrebbe consentito agli eredi di farsi valere. Per la Kunin questo non costituì solo un risultato politico, ma anche una rivelazione personale. Nata a Zurigo nel 1933, era fuggita a New York con la famiglia ebrea nel 1940.

“Quando trovai il nome di mia madre su una delle liste dei conti in giacenza fu un momento speciale della mia vita”, spiega. “Di colpo facevo parte della storia”.

La storia impiegò molto tempo per arrivare a una conclusione. “Alla fine entrambe le parti erano esauste”, ricorda Borer.

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Epilogo

Infine, il 12 agosto 1998, le grandi banche svizzere e le organizzazioni ebraiche raggiungono un accordo extragiudiziale. Gli istituti di credito stanziano 1,25 miliardi dollari (pari a 1,8 miliardi di franchi di allora) per regolare tutte le pendenze legate ai fondi in giacenza e all’oro sottratto. L’intesa comprende il risarcimento delle vittime dell’Olocausto e dei loro eredi.

L’accordo – e il lungo processo che ha portato ad esso –è presieduto dal giudice di New York Edward Korman. “Ha fatto un grande lavoro per riunire le parti”, rileva Thomas Borer.

Nel 2013, ossia 15 anni dopo, lo stesso magistrato di Brooklyn annuncia che la totalità dei fondi è stata distribuita. Tenendo conto degli interessi maturati sulle somme versate dai grandi istituti elvetici, sono stati restituiti circa 1,3 miliardi di dollari a circa 425mila ebrei. Il giudice Korman chiude il caso presso il tribunale arbitrale “Claims Resolution Tribunal” e deposita tutta la documentazione relativa alla distribuzione del denaro per la sua archiviazione. Ogni singolo atto sarà digitalizzato.

Bilanci

“A volte, per queste cose entrambe le parti hanno bisogno di tempo per capire”, dice Borer. Riflettendo, egli ammette che “forse noi svizzeri avevamo una visione troppo positiva del nostro ruolo nella Seconda Guerra mondiale”. Ma sottolinea che la Svizzera era “in una posizione molto difficile… Non avevamo il lusso di avere un oceano e mezzo tra noi e la Germania nazista. Noi avevamo il fiume Reno”.

In definitiva, Thomas Borer ritiene che l’accordo raggiunto sia stato “una buona soluzione per entrambe le parti. Ha messo fine ai litigi durati più di tre anni”.

L’ex ambasciatrice americana Madeleine Kunin è d’accordo. “Penso che dopo tanti anni sia difficile restituire tutto a tutti. Ma considerando quanto fosse difficile questo compito, penso che sia stata fatta giustizia. Come molti capitoli della storia, è stato complicato. Ma alla fine ho avuto la sensazione che Svizzera aveva fatto la cosa giusta”.

Il 12 agosto 1998, l’UBS e il Credit Suisse raggiunsero un accordo extragiudiziale con il Congresso ebraico mondiale (CEM) relativo a una causa legale avviata nel 1995 a New York. Le due grandi banche accettarono di pagare 1,25 miliardi dollari (1,8 miliardi di franchi dell’epoca) alle vittime della Shoah o dei loro eredi.

Di questi, 800 milioni di dollari furono stanziati per il rimborso di persone i cui soldi erano rimasti su conti bancari in Svizzera dopo la guerra. Altri 425 milioni di dollari furono destinati a sopravvissuti all’Olocausto, profughi respinti alle frontiere svizzere e lavoratori forzati. Anche vittime non ebree hanno potuto essere risarcite.

L’identificazione dei destinatari dei fondi è stata gestita dal “Claims Resolution Tribunal”, con sede a Zurigo. La distribuzione del denaro è iniziata nel 2001 ed è stata “quasi conclusa” nel 2013.

(Traduzione dall’inglese: Sonia Fenazzi)

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