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Ammissione provvisoria: un “non statuto” che divide il mondo politico

A fine maggio, erano oltre 31mila le persone registrate in Svizzera con un “permesso F”. Keystone

All’origine era pensata per garantire ai richiedenti l’asilo respinti una protezione a corto termine, in attesa di un rimpatrio. Oggi però l’ammissione provvisoria si prolunga spesso per decenni, sprofondando le persone nella precarietà. Criticato da più parti, questo “non statuto” infiamma il dibattito politico.

Mentre l’estate non era ancora alle porte, a inizio giugno il numero di migranti sbarcati sulle coste italiane e greche aveva già superato quota 100mila. Un afflusso mai registrato prima che tocca da vicino anche la Svizzera, tra le principali destinazioni dei richiedenti l’asilo e porta d’accesso verso l’Europa del Nord.

Secondo le stime della Segreteria di Stato della migrazione (SEM), entro fine anno le domande d’asilo in Svizzera dovrebbero sfiorare le 29mila, 6mila in più rispetto al 2014. Il sistema di accoglienza elvetico è messo a dura prova e i cantoni sono chiamati a dar prova di maggior solidarietà. E così negli ultimi mesi, il già acceso dibattito politico non ha mancato di surriscaldarsi.

Di norma, in Svizzera lo statuto di rifugiato è accordato in caso di persecuzioni gravi e individuali da parte dello Stato o di entità private contro le quali un paese non può agire. L’ammissione provvisoria subentra quando una persona non ha diritto all’asilo, ma il suo rimpatrio è ritenuto “inesigibile” o “inammissibile”. Le ragioni possono essere diverse: una situazione di violenza generalizzata, come ad esempio in Siria, un rischio di persecuzione, oppure quando una persona non ha accesso a cure mediche indispensabili.

Anche perché a crescere non è unicamente il numero di migranti, ma anche – e soprattutto – la percentuale di coloro che ottengono il diritto di restare in Svizzera. Non sempre come rifugiati riconosciuti, ma anche come richiedenti l’asilo respinti, che hanno nondimeno bisogno di protezione. Un paradosso? Non proprio.

In fuga dalla guerra civile in Siria, dalla dittatura eritrea o da una Somalia allo sbando, i richiedenti l’asilo ottengono lo statuto di rifugiato unicamente quando sono perseguitati individualmente. Così vuole la Convenzione di Ginevra. Quando però un rimpatrio metterebbe in pericolo la vita di una persona, è considerato inesigibile o inammissibile ai sensi delle convenzioni internazionali.

La Svizzera, così come gli altri paesi europei, riconosce dunque un bisogno di protezione anche a un certo numero di richiedenti l’asilo respinti. A loro è riservato il cosiddetto “permesso F”, un’ammissione provvisoria che negli ultimi anni è sempre più sollecitata.

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Creato nel 1987, il “permesso F” era inizialmente pensato per garantire ai migranti una protezione a corto termine in attesa di un rimpatrio. “È quanto successo alla fine degli anni Novanta con i kosovari, che al termine della guerra in ex Jugoslavia sono per lo più rientrati in patria”, spiega Etienne Piguet, professore all’università di Neuchâtel e vicepresidente della Commissione federale della migrazione. Oggi però siamo di fronte a conflitti sempre più complessi e lunghi, così come a una diversa tipologia di migranti.

Nella maggior parte dei casi, le persone ammesse a titolo provvisorio restano in Svizzera per tutta la vita, senza però avere gli strumenti necessari per integrarsi nella nostra società, afferma Piguet.

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A differenza di altri paesi europei, in Svizzera le persone ammesse a titolo provvisorio non godono degli stessi diritti dei rifugiati. L’accesso al lavoro, seppure garantito per legge, è spesso ostacolato dal mancato riconoscimento dei diplomi, dall’obbligo di vivere in un determinato cantone e da una certa diffidenza dei datori di lavoro per quel termine “provvisorio”. Chi trova un impiego, deve inoltre pagare una tassa fino al 10% del reddito, mentre gli altri “provvisori” sono a carico dell’assistenza sociale, che in molti cantoni è inferiore a quella degli svizzeri, dei cittadini europei e dei rifugiati.“L’attuale sistema confina queste persone al margine della società. L’attuale legge prevede la possibilità di trasformare il “permesso F” in un permesso di soggiorno (B), dopo un minimo di cinque anni. Ma i criteri sono molto severi e in molti cantoni includono un’indipendenza finanziaria. La maggior parte fatica però a trovare un impiego e rimane dunque per anni, se non per decenni, in una condizione provvisoria”, afferma Denise Efionayi-Mäder, vicedirettrice del Forum svizzero per lo studio delle migrazioni e della popolazione di Neuchâtel.

A fine maggio, erano oltre 31mila le persone registrate in Svizzera con un “permesso F”. Di loro si sapeva poco o nulla, fino alla pubblicazione – lo scorso dicembre – di un primo importante studioCollegamento esterno condotto da Denise Efionayi-Mäder e Didier Ruedin, su mandato della Commissione federale per la migrazione. “Ciò che mi ha colpito di più è l’età di queste persone: hanno in media vent’anni e tra loro ci sono molti bambini, costretti a crescere in condizioni difficili”.

Lo studio rivela che la durata di un “permesso F”, prima di una regolarizzazione (permesso di soggiorno) o di un rimpatrio, varia in modo considerevole, ma con gli anni tende ad allungarsi. Se la media è di tre anni, la metà degli attuali 31mila “provvisori” è in Svizzera da oltre 7 e il 12% da 16 anni.

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L’incongruenza di questo permesso è stata sollevata da più parti ed è tornata al centro del dibattito politico. A destra, l’Unione democratica di centro (UDC, destra conservatrice) ritiene che l’ammissione provvisoria sia data con troppa generosità, in particolare ad eritrei e srilankesi, e che i rimpatri dovrebbero essere sistematici. “Il “permesso F” deve essere soppresso, perché in realtà è un permesso di soggiorno camuffato. A chi avrà veramente bisogno, garantiremo protezione, ma la Svizzera è troppo piccola per accogliere tutti. E poi sono convinto che la maggior parte voglia rientrare al proprio paese”, afferma il deputato grigionese Heinz Brand, promotore di un’iniziativa parlamentareCollegamento esterno per inasprire il diritto d’asilo.

Favorire l’integrazione di queste persone è inoltre fuori luogo per Brand, che rifiuta i risultati dello studio dell’università di Neuchâtel. “Non è il lavoro che manca a questa gente, ma la voglia di lavorare. L’assistenza sociale è troppo generosa e andrebbe rimpiazzata con l’aiuto d’urgenza”.

Da diversi anni, i richiedenti l’asilo colpiti da una decisione di non entrata in materia (2004) e quelli in attesa di espulsione (2008) sono privati dell’assistenza sociale. Possono però richiedere il cosiddetto aiuto d’urgenza, sulla base dell’articolo 12 della Costituzione federale del 1998Collegamento esterno, che garantisce a tutte le persone in situazione di bisogno il diritto a un’esistenza dignitosa. A seconda dei cantoni, l’aiuto d’urgenza varia da 6,50 a 12 franchi al giorno (spesso distribuiti sotto forma di buoni) e ha come obiettivo di spingere i migranti a lasciare al più presto il territorio elvetico. 

Sul fronte opposto, la deputata socialista Cesla AmarelleCollegamento esterno denuncia una strumentalizzazione del tema dell’ammissione provvisoria. “L’UDC parla di abusi, ma se la percentuale di persone con un “permesso F” è aumentata è anche a causa sua. Con l’ultima revisione della legge nel 2013, è infatti riuscita a stralciare la diserzione come motivo d’asilo. Molti eritrei finiscono così all’ammissione provvisoria. Restano comunque in Svizzera, ma in condizioni molto più precarie”.

Per Cesla Amarelle è chiaro che nella maggior parte dei casi un rimpatrio in tempi brevi è impossibile. I diritti di queste persone andrebbero dunque ampliati e la loro situazione regolarizzata. “La volontà di rimpatriare tutti può essere giustificata da un punto di vista politico, ma è impraticabile. Nemmeno Christoph Blocher [ex consigliere federale e leader dell’UDC] è riuscito ad andare in Eritrea. Si è dovuto fermare in Etiopia. Ed ora pretendono di rimpatriare gli eritrei in uno dei paesi con la peggior dittatura al mondo? È un’assurdità”.

Sulla base dello studio dell’università di Neuchâtel, in dicembre la Commissione federale della migrazione ha proposto di sostituire l’ammissione provvisoria con uno statuto “positivo” di protezioneCollegamento esterno, che garantirebbe maggiori diritti a queste persone. Dopo un massimo di sei anni, scatterebbe ad esempio l’accesso automatico a un permesso di soggiorno.

Per Piguet, vicepresidente della Commissione, non si tratta tuttavia di mettere sullo stesso piano rifugiati e persone ammesse a titolo provvisorio. Nei primi anni, l’obbligo di rimpatrio deve rimanere.

La proposta non convince l’UDC, secondo cui una tale misura renderebbe la Svizzera “ancor più attrattiva, creando un effetto boomerang”. Una tesi che non convince però Etienne Piguet: “la promessa di un permesso di soggiorno dopo 6 anni non è un fattore d’attrazione sufficiente. Inoltre diversi studi dimostrano che non sono le condizioni di accoglienza a spingere una persona a scegliere di chiedere asilo in un paese piuttosto che in un altro”.

Il dossier tornerà presto sui banchi del Parlamento. La Commissione delle istituzioni politiche del Consiglio nazionale, presieduta da Cesla Amarelle, ha infatti chiesto un riesameCollegamento esterno dello statuto di ammissione provvisoria. La risposta del Consiglio federale (governo svizzero) è attesa al più tardi entro fine anno. Spetterà dunque al nuovo Parlamento, scaturito dalle elezioni federali di ottobre, decidere la strada da percorrere. 

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