Centinaia di ebrei dell'Europa centro-orientale sfuggirono allo sterminio nazista grazie a passaporti latino-americani, procurati da ambienti diplomatici in Svizzera. La vicenda, poco conosciuta, è raccontata da una mostra nel Museo ebraico di Basilea.
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Storico di formazione e grigionese di origine, mi interesso soprattutto di questioni politiche e sociali.
Nata in Inghilterra, vivo in Svizzera dal 1994. Mi sono formata come graphic designer a Zurigo tra il 1997 e il 2002. Recentemente mi occupo di elaborazione di immagini e ho raggiunto il team di swissinfo.ch nel marzo del 2017.
Andrea Tognina (testo) e Helen James (redazione fotografica)
Dopo l’ascesa al potere di Adolf Hitler in Germania, centinaia di migliaia di ebrei cercarono scampo all’estero, in particolare negli Stati Uniti, in Palestina e in America latina. Ma quando dal 1938 molti paesi chiusero le loro frontiere ai profughi ebrei, il possesso di determinati passaporti e visti divenne un fattore decisivo per la sopravvivenza.
“Quando in Germania nel 1938 iniziò la persecuzione degli ebrei, il mio ufficio venne letteralmente preso d’assalto da ebrei che speravano di salvare dei familiari grazie a un visto per la Repubblica del Paraguay”, dichiarava qualche anno dopo Rudolf Hügli, notaio bernese e console onorario del Paraguay in Svizzera, alla polizia elvetica.
Rete di sostegno
Di fronte a questa situazione, in varie città svizzere si formò una rete di sostegno, che mirava a ottenere per gli ebrei nelle zone occupate dai nazisti passaporti di paesi latinoamericani. L’azione, che poteva contare sull’appoggio dell’ambasciata in Svizzera del governo polacco in esilio, ebbe all’inizio carattere piuttosto spontaneo e sporadico.
Attorno al 1942, quando il coordinamento fu assunto da Abraham Silberschein, ex deputato al parlamento polacco e delegato al Congresso mondiale ebraico a Ginevra, l’iniziativa assunse dimensioni più importanti.
Con il sostegno di donatori privati e la collaborazione di organizzazioni caritatevoli ebraiche, la rete riuscì a raccogliere vari milioni di franchi, destinati a pagare i consolati che fornivano le false attestazioni di cittadinanza.
“La nostra speranza è che la mostra induca gli storici a occuparsene in maniera più approfondita” Naomi Lubrich, Museo ebraico
Tra aiuto e lucro
I passaporti, salvo eccezioni, non erano ceduti gratuitamente. Hügli per esempio, che fornì migliaia di passaporti, riscuoteva 500 franchi a documento. Altri diplomatici esigevano tra i 1000 e i 2000 franchi, un avvocato di Zurigo arrivò a chiedere fino a 600’000 franchi per i suoi servizi.
Gli ebrei nei territori occupati dai nazisti che riuscivano a ottenere un simile passaporto godevano di una certa protezione, in quanto presunti cittadini di un paese latino-americano neutrale. Molti di loro furono trasferiti dai tedeschi in campi di internamento, in particolare a Vittel, in Francia, e Bergen-Belsen, in Germania, sfuggendo almeno temporaneamente allo sterminio.
Nel 1943, la rete di sostegno in Svizzera fu smantellata dalla polizia. Le autorità elvetiche confiscarono documenti e fotografie, mettendo in stato di fermo le persone più attive della rete. La Svizzera evitò tuttavia di avviare una procedura giudiziaria, forse per timore delle reazioni tedesche.
“La nostra speranza è che la mostra, in cui molti documenti sono presentati per la prima volta al pubblico, induca gli storici a occuparsene in maniera più approfondita.”
La mostra Collegamento esterno“Pässe, Profiteure, Polizei” (passaporti, profittatori, polizia), allestita dal Museo ebraico della Svizzera di Basilea in collaborazione dell’Archiv für Zeitgeschichte (archivio per la storia contemporanea) del Politecnico federale di Zurigo, è ospitata nella galleria del museo al Petersgraben 31 di Basilea. I testi sono in tedesco, francese e inglese. È prevista prossimamente la pubblicazione di un catalogo.
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