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L’impegno africano della procuratrice della CPI

La procuratrice generale della Corte penale internazionale, Fatou Bensouda, respinge fermamente le accuse di essere "un burattino nelle mani degli occidentali" AFP

Fin dall'inizio, la Corte penale internazionale è regolarmente accusata di neocolonialismo, visto che la maggior parte delle sue indagini che riguardano l'Africa. Di passaggio a Ginevra, la procuratrice capo Fatou Bensouda, gambiana e musulmana, replica a tali critiche.

Eletta consensualmente procuratrice capo della Corte penale internazionale (CPI) dall’Assemblea dei 121 Stati membri nel dicembre 2011, Fatou Bensouda è entrata in carica il 15 giugno 2012. La magistrata, dal 2004, era già procuratrice aggiunta.

Di passaggio a Ginevra su invito della Svizzera, l’ex ministra della giustizia gambiana spiega l’importanza della CPI per il continente africano.

swissinfo.ch: Molte indagini della CPI riguardano leader africani. Per questo taluni dicono che è uno strumento neocoloniale. Cosa risponde?

Fatou Bensouda: Certe persone mi definiscono un burattino degli occidentali. Ma la realtà è diversa. Sono i paesi africani che richiedono maggiormente l’intervento della CPI rispetto alle altre regioni del mondo. E questo sin dal lancio della CPI più di dieci anni fa.

Inoltre, è molto difficile dire che le vittime non sono africane. Ci sono migliaia e migliaia di vittime in ogni caso su cui indaghiamo. Si tratta di crimini molto gravi. La CPI è praticamente l’unica istituzione che agisce per quelle migliaia di vittime.

Quei leader africani accusati di tali crimini si atteggiano ora a vittime della giustizia internazionale. Questo è un insulto alle vere vittime di queste atrocità.

Per la Libia e il Sudan, è il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che ha incaricato la CPI di indagare. Nella maggior parte degli altri casi, sono gli Stati africani interessati che si rivolgono a noi, perché ritengono di non avere la capacità di condurre loro stessi le indagini.

È quanto hanno fatto l’Uganda, la Repubblica Centrafricana e la Repubblica democratica del Congo. Nel caso della Costa d’Avorio è la CPI che ha preso l’iniziativa. Ma nel 2003, sotto la presidenza di Laurent Gbagbo, la Costa d’Avorio ha ufficialmente dichiarato che accettava la giurisdizione della CPI e l’ha invitata ad agire. Una dichiarazione che è stata rinnovata dall’attuale presidente Alassane Ouattara.

Più recentemente, anche il Mali ha chiesto alla Corte penale internazionale di indagare sul suo territorio.

La CPI è un tribunale indipendente delle Nazioni Unite. Fondata nel 1998 da 120 Stati, è retta dallo Statuto di Roma.

Priva di forze di polizia, la Corte dipende dalla collaborazione degli Stati per interpellare i suoi sospetti e perseguire gli autori dei crimini più gravi, come crimini di guerra e genocidio. Non interviene se la giustizia nazionale in questione avvia un procedimento giudiziario credibile.

L’ufficio del Procuratore della CPI indaga su 7 casi in Uganda, Repubblica democratica del Congo, Darfur (Sudan), Repubblica Centrafricana, Kenya, Libia e Costa d’Avorio.

Una serie di indagini preliminari è attualmente condotta in Afghanistan, Georgia, Guinea, Colombia, Honduras, Corea del Sud, Nigeria, Mali.

Fonte: CPI

swissinfo.ch: Sente di essere appoggiata dalla popolazione, dalla società civile dei paesi africani vittime di crimini di guerra?

F. B.: Sì, ci sentiamo sostenuti. Dopo tutto, i casi sui quali indaghiamo emanano da loro. In tutti i casi che esaminiamo, le persone colpite e coloro che si prendono cura di loro sostengono fortemente la CPI. Sanno che senza la nostra corte non otterrebbero mai giustizia.

swissinfo.ch: Ha qualche speranza di potere un giorno processare il presidente sudanese Omar al-Bashir, accusato di genocidio in Darfur?

F. B.: L’arresto del presidente sudanese non dipende dalla CPI. Noi non abbiamo il potere di arrestare. Il nostro mandato è solo giudiziario. È il ruolo e il dovere degli Stati parti dello Statuto di Roma, che sono il braccio armato della CPI.

Il presidente sudanese ha viaggiato e forse continua a viaggiare nel territorio di Stati parti della CPI. Come il Ciad, che lo invita regolarmente, mentre il suo governo ha il dovere e la responsabilità di arrestarlo e portarlo davanti alla CPI.

Ovviamente, non ha funzionato nel caso di Omar al-Bashir, un presidente che mette costantemente alla prova i limiti della giustizia internazionale. Ragion per cui esorto gli Stati a sedersi attorno a un tavolo per trovare altri modi per garantire che i nostri procedimenti si concretizzino.

Ai sensi dell’articolo 13 dello Statuto di Roma, su cui è fondata la Corte penale internazionale (CPI), ci sono tre modi di deferimento alla Corte:

– Uno Stato parte può segnalare al procuratore una situazione nella quale uno o più crimini di competenza della Corte appaiono essere stati commessi (articolo 14);

– Una stessa situazione può essere deferita al procuratore dal Consiglio di sicurezza, ai sensi del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite;

– Il procuratore può decidere di propria iniziativa di avviare un’indagine sulla base di informazioni relative ai crimini di competenza della Corte. (articolo 15).

swissinfo.ch: Nota un cambiamento nell’atteggiamento degli Stati interessati a questo caso?

F. B.: Questo caso è molto particolare, perché l’Unione africana (UA) ha adottato una risoluzione che chiede di non collaborare con la CPI per l’arresto del presidente sudanese. Ma l’UA non ha chiesto un boicottaggio generale della CPI. Alcuni paesi africani, come il Ciad, si sentono obbligati a seguire la risoluzione. Altri pensano che questo testo non possa essere sovrapposto agli obblighi internazionali dello Statuto di Roma.

Ma spero che la situazione critica nella quale versano le vittime in Darfur da oltre dieci anni alla fine prevalga sulle protezioni di cui godono i responsabili di quelle atrocità.

swissinfo.ch: Le organizzazioni non governative chiedono che le indagini della CPI siano intraprese con maggior vigore. Quali sono le più grandi sfide che dovete affrontare sul campo?

F. B.: Si deve capire che le indagini della giustizia internazionale sono tutt’altro che facili. Il più delle volte si svolgono in regioni di conflitti. Dobbiamo garantire la protezione dei testimoni, delle vittime e delle nostre equipe. È anche essenziale trovare testimoni in queste zone poco sicure e raccogliere quante più informazioni possibili, al fine di presentare incarti solidi davanti ai giudici della CPI.

Sappiamo che i testimoni hanno paura, che a volte subiscono intimidazioni, minacce provenienti dalle comunità in cui vivono. Alcuni testimoni si vedono offrire abbastanza soldi per aiutarli a uscire da una situazione disagiata e accettano.

È dunque molto difficile per noi per controllare tutte le interferenze. Anche semplici problemi logistici diventano dei rompicapo. Dobbiamo per esempio trovare interpreti e traduttori affidabili per ogni sorta di idioma.

Spesso, dobbiamo cercare un posto abbastanza sicuro per condurre gli interrogatori, in modo da non esporre i nostri testimoni. A volte dobbiamo effettuare gli interrogatori in un’altra regione

Raccogliere prove, analizzarle, per noi è una sfida enorme.

La Svizzera ha sostenuto attivamente l’istituzione della Corte penale internazionale (CPI) nel 1998.

Nell’ottobre del 2001, Berna ha ratificato lo Statuto di Roma, che definisce competenze e regole di funzionamento della CPI.

L’ambasciatore svizzero a L’Aia (sede della CPI) occupa uno dei due seggi della vice-presidenza dell’Assemblea degli Stati parte dello Statuto di Roma, l’organo direttivo della CPI. In questo ruolo, presiede il “Gruppo di lavoro L’Aia”, in cui gli Stati parti discutono per esempio del bilancio o della cooperazione tra gli Stati e con la Corte penale internazionale.

L’ambasciatore svizzero presso le Nazioni Unite a New York presiede invece il “Gruppo di lavoro sugli emendamenti”, che gestisce gli sviluppi dello Statuto di Roma.

(Traduzione dal francese: Sonia Fenazzi)

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