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“Un periodo buio per i diritti umani”

AFP

I diritti umani non sono una priorità nelle relazioni internazionali. Restano un "parente povero" rispetto al commercio, la sicurezza e le questioni economiche, riconosce il direttore dell'Accademia di diritto internazionale umanitario e diritti umani di Ginevra.

Comunque negli ultimi anni sono stati conseguiti progressi, aggiunge Andrew Clapham, parlando a swissinfo.ch, in occasione della Giornata internazionale dei diritti umani, che si celebra il 10 dicembre.

Passi avanti compiuti segnatamente con l’istituzione della valutazione paritaria in seno al Consiglio dei diritti umani. Anche se questo organismo delle Nazioni Unite ha ancora qualche problema di ‘gioventù’, precisa.

swissinfo.ch: Stati, individui e istituzioni oggi danno ai diritti umani il posto che meritano?

Andrew Clapham: Mi piacerebbe dire di sì, ma sento che è un periodo buio per i diritti umani. La situazione in Siria, dove i diritti umani sono violati ogni giorno non sta provocando nel mondo il tipo di preoccupazione che ci si aspetterebbe. C’è una sorta di inquietudine frustrata, ma la gente si occupa di altre priorità.

Lo stesso succede in altri contesti. Nel mondo degli investimenti, in quello del commercio, del commercio delle armi, non credo che i diritti umani abbiano la priorità che dovrebbero.

Quindi, anche se abbiamo l’ufficio dell’Alto commissario per i diritti umani, con un vasto staff e uffici in tutto il mondo, credo che in termini di relazioni internazionali, i diritti umani siano ancora molto il parente povero di altre preoccupazioni relative al commercio, la sicurezza nazionale e lo sviluppo economico.

swissinfo.ch: Ancora di recente, fare accettare la Dichiarazione universale dei diritti umani come punto di riferimento comune era un problema. Alcuni paesi avevano rifiutato a causa di obiezioni religiose e culturali o tradizioni. I diritti umani adesso sono universali?

A. C.: Penso che nel complesso abbiamo superato tale dibattito. Oggi è molto raro che alle Nazioni Unite uno stato affermi che i diritti umani non sono applicabili nei propri confronti o che i diritti umani sono una specie di costrutto occidentale.

Detto questo, abbiamo una accettazione universale, almeno a livello ufficiale, ma il problema è che l’accettazione è accompagnata dal rischio che siano visti come tutto e niente, che siano un po’ banalizzati. Quindi è importante non continuare a convincere la gente che i diritti umani esistono, ma concentrarsi sul perseguimento di chi li viola e sulla prevenzione delle loro violazioni.

swissinfo.ch: Le difficoltà legate all’accettazione dei diritti umani sono un problema occidentale, orientale, un problema per i paesi in via di sviluppo o quelli sviluppati?

A. C.: Storicamente, ad esempio, gli Stati Uniti non sono stati grandi sostenitori del concetto di diritti economici, sociali e culturali. Tuttavia, il presidente Obama, quando era in procinto di iniziare il suo secondo mandato, ha fatto indirettamente riferimento al diritto alla salute. Ciò non significa un cambiamento di rotta per tutta l’America, ma rappresenta l’inizio di qualcosa. Il programma sanitario ha giocato un ruolo importante alle elezioni presidenziali. E l’idea che lo Stato ha l’obbligo di garantire a tutti l’accesso alle cure sanitarie è sempre più accettato in un paese come gli Stati Uniti.

D’altra parte, un paese come la Cina, che non ha ratificato la Convenzione sui diritti civili e politici e ha respinto alcune richieste riguardanti i diritti politici e la libertà di espressione, alle Nazioni Unite o addirittura dinanzi al suo popolo non nega che tali diritti esistono. Tali paesi sostengono che applicano una limitazione giustificata in termini di sicurezza nazionale e così via. Così il linguaggio dei diritti umani non è più ‘li accettiamo o no’ o ‘accettiamo alcuni diritti o no’. È molto più dettagliato e penso che sia una buona cosa.

swissinfo.ch: Un tema di diritti umani è stato quello delle istituzioni incaricate di monitorare la loro applicazione. C’è stato un cambiamento quando la Commissione delle Nazioni Unite per i diritti umani è stata sostituita dal Consiglio dei diritti umani. Questo cambiamento ci ha permesso di dimenticare i problemi che affliggevano la vecchia Commissione?

A. C.: Il Consiglio ha avuto parzialmente successo. Ad esempio, la Commissione si occupava solo dei paesi in cui vi era una maggioranza per condannarli. Abbiamo avuto un sacco di discussioni in merito a paesi come l’Iraq, l’Iran, Haiti, il Congo e così via, ma non su pesi massimi come la Gran Bretagna, la Francia, la Cina, gli Stati Uniti e la Russia. Per quanto mi ricordo, nessuno di questi è stato mai condannato o oggetto di una vera e propria discussione presso la Commissione.

Con il Consiglio, ora ogni stato è messo sotto la lente per uno stesso lasso di tempo nell’ambito dell’Esame periodico universale (EPU). Questo è un progresso, non solo perché i paesi più grandi sono sottoposti a discussione, ma perché adesso lo sono anche piccoli paesi in cui c’erano problemi di diritti umani, ma a nessuno importava davvero discuterne.

Sono stati commessi errori nelle fasi iniziali? Sì, penso di sì. Credo che l’EPU sia eccessivamente cordiale e diplomatico. Se qualcuno scendesse da Marte e cominciasse a guardarlo, lo prenderebbe per un club molto signorile con persone che si scambiano complimenti, non per un organismo di vigilanza che effettua revisioni periodiche. Tuttavia, era inevitabile nella prima fase quando ci si sta familiarizzando. L’EPU sarà più solido tra dieci anni.

swissinfo.ch: L’Accademia che lei dirige forma sulla promozione dei diritti umani. Crede che il rispetto dei diritti umani debba venire dagli individui prima che dalle istituzioni?

A. C.: Tutti i progressi in materia di diritti umani sono stati opera di individui che, a volte lavorando per i governi o le Nazioni Unite, hanno fatto avanzare i meccanismi per la loro tutela. I grandi trattati alle Nazioni Unite sono stati spesso guidati da persone impegnate, solitamente attive in organizzazioni non governative.

È il caso, per esempio, delle convenzioni in materia di tortura, disabili o sparizioni: tutte devono le loro origini a individui che lavorano per la tutela di quei diritti e non a stati che decidono di concedere tali diritti per generosità o nobiltà. Quindi esigere quei diritti è una lotta continua. Naturalmente il meccanismo è costruito da stati, quindi è necessario lavorare insieme. Ma la storia dei diritti umani è fondata sulle rivendicazioni di individui.

Direttore dell’Accademia di diritto internazionale umanitario e di diritti umani di Ginevra, Andrew Clapham è anche professore di diritto internazionale pubblico presso l’Istituto universitario di alti studi internazionali e dello sviluppo della città sul Lemano.

Insegna diritto internazionale dei diritti umani e diritto pubblico internazionale.

Clapham ha lavorato come consigliere speciale per la responsabilità aziendale presso i servizi dell’alta commissaria per i diritti umani Mary Robinson, così come consulente per il diritto internazionale umanitario presso i servizi del rappresentante speciale del Segretario generale dell’ONU in Iraq, Sergio Vieira de Mello.

È segnatamente l’autore della pubblicazione Diritti umani, una introduzione molto breve, che si concentra su questioni tra cui la tortura, la detenzione arbitraria, la privacy, la salute, e la discriminazione.

La giornata mondiale dei diritti umani si celebra ogni anno il 10 dicembre. È stata proclamata nel 1950 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite per commemorare la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata il 10 dicembre 1948 a Parigi, con 48 stati a favore e otto astenuti.

Allora fu adottata come uno “standard comune da raggiungersi da tutti i popoli e tutte le nazioni”, verso il quale gli individui e le società dovrebbero “impegnarsi, attraverso misure progressive di carattere nazionale e internazionale, per assicurare il loro universale ed effettivo riconoscimento e rispetto”.

La Dichiarazione – che contempla diritti politici, civili, sociali, culturali ed economici – non è un documento vincolante. Tuttavia, fornisce la base per più di 60 strumenti dei diritti umani

(Traduzione dall’inglese: Sonia Fenazzi)

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