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Svizzera-UE: un 2012 carico di tensioni ed incognite

Per Bruxelles la Svizzera non è per ora sicuramente una priorità Keystone

Dopo un 2011 caratterizzato da un certo stallo, complici le elezioni federali, il 2012 sarà un anno importante nei rapporti tra Svizzera e Unione Europea. Berna e Bruxelles dovranno trovare una soluzione alla questione istituzionale. La fiscalità promette anche dibattiti accesi.

Tra gli obiettivi per il 2012 presentati ad inizio dicembre dal governo svizzero, il «chiarimento delle relazioni istituzionali tra la Svizzera e l’Unione Europa» figura nella lista delle dieci priorità più importanti.

Dal primo accordo siglato nel 1972, quello sul libero scambio, la rete di contratti tra Berna e Bruxelles ha continuato ad infittirsi, tanto che oggi sono circa 120. Si va da quelli estremamente settoriali, come ad esempio la cooperazione in ambito statistico, a quelli molto più ‘palpabili’ per il comune mortale, come l’accordo sulla libera circolazione o l’accordo di Schengen.

Oltre a queste intese, Svizzera e Unione Europea stanno negoziando da tempo anche su una decina di altri dossier tutt’altro che secondari. In particolare la fiscalità, tema sul quale l’UE tornerà verosimilmente alla carica nel 2012 vista la situazione finanziaria drammatica alla quale sono confrontati i paesi membri. Ma anche mercato dell’elettricità, agricoltura, commercio dei diritti di emissione…

«Se si prende l’esempio del mercato dell’elettricità, finora non è stato un dramma non avere un accordo», osserva Jean Russotto, avvocato svizzero che vive e lavora a Bruxelles da 40 anni. Con l’uscita dal nucleare e l’importanza accordata alle energie rinnovabili e all’efficacia energetica, la situazione è però in piena mutazione. Inoltre, la Svizzera rappresenta un crocevia molto importante per il commercio e il transito dell’elettricità e quindi è un tassello fondamentale per la sicurezza dell’approvvigionamento. Senza un accordo sul mercato dell’elettricità, per le aziende svizzere che vogliono operare nei paesi dell’UE, ad esempio vendendo energia rinnovabile, tutto diventa più difficile, sottolinea Russotto.

Fase di stallo

I negoziati si trovano però in una fase di stallo. La ragione è presto detta: l’Unione Europea vuole che prima di qualunque nuovo accordo bilaterale, si regoli la questione istituzionale.

Gli accordi conclusi fino ad ora sono classici accordi di diritto internazionale. «Il diritto europeo, come quello svizzero d’altronde, evolve.  Se cambiano le regole rilevanti per i campi che toccano questi accordi, si crea una discrepanza tra il diritto svizzero e quello europeo», ricorda Giorgio Pompilio, vice-responsabile dell’informazione dell’Ufficio federale dell’integrazione, l’ente incaricato di coordinare la politica europea della Svizzera. Attualmente spetta ai comitati misti Svizzera-UE appianare di comune accordo queste discrepanze e adattare gli accordi. Visto il numero di accordi e le ricorrenti modifiche del diritto europeo, i comitati hanno sempre più difficoltà a stare al passo.

Una situazione che Bruxelles non è più disposta a tollerare. «Per l’Unione Europea, il problema principale è che gli accordi con la Svizzera, eccezion fatta per alcuni, come quello di Schengen, non prevedono una ripresa del diritto “futuro”ha nessuna clausola evolutiva. Bruxelles vorrebbe che Berna si impegnasse a riprendere anche i cambiamenti futuri, del cosiddetto acquis comunitario. La Svizzera non vuole però firmare assegni in bianco, non vuole una ripresa automatica», osserva Pompilio.

Approccio globale

Berna non è contraria per principio alla creazione di un quadro istituzionale che regoli la questione della ripresa dell’acquis comunitario (del resto già oggi spesso la legislazione elvetica viene adattata in modo autonoma a quella europea). Ma ad alcune condizioni. Vuole, ad esempio, poter partecipare al processo decisionale, come già avviene per l’accordo di Schengen. Inoltre chiede che questo quadro contempli delle misure per far rispettare la sovranità elvetica, adattando i contratti al fine di permettere l’organizzazione di eventuali referendum.

Bruxelles per ora non sembra essere molto ricettiva. Ad esempio, l’idea di creare un tribunale arbitrale, composto da giudici dell’UE e da magistrati svizzeri, incaricato di sorvegliare l’applicazione degli accordi e di regolare eventuali divergenze, è stata respinta senza mezzi termini dall’ambasciatore dell’UE a Berna Michael Reiterer e dal capo del desk svizzero a Bruxelles Gianluca Grippa. Una simile istanza giuridica entrerebbe in un certo senso in concorrenza con la Corte europea di giustizia.

«Per ora stiamo assistendo a una sorta di dialogo tra sordi», osserva Jean Russotto. Lo statu quo non è però un’alternativa, tanti sono gli interessi in gioco da entrambe le parti.

Fiscalità

«Forse ancora nel corso di quest’anno, la situazione potrebbe però sbloccarsi e molti problemi potrebbero essere messi sul tavolo per cercare di avere un approccio globale», aggiunge l’avvocato svizzero. A fungere da catalizzatore potrebbe essere lo spinoso dossier della fiscalità, che racchiude la fiscalità del risparmio e gli accordi conclusi con Germania e Gran Bretagna, la fiscalità dei cantoni, la nuova politica regionale e il codice di condotta.

«In un certo senso, è l’UE che in un questo ambito chiede qualcosa alla Svizzera. Vuole che Berna partecipi alla fiscalità del risparmio, che ponga fine a certi privilegi accordati dai cantoni, vuole un dialogo in materia di codice di condotta e non vuole invece gli accordi con la Germania e la Gran Bretagna per questioni di euro-compatibilità», sottolinea Jean Russotto.

La fiscalità potrebbe essere insomma una carta che Berna ha interesse a giocare bene. «A mio avviso, negoziando sulla fiscalità, la Svizzera può ottenere delle contropartite, ad esempio per quanto riguarda la questione istituzionale».

Un altro dossier particolarmente ‘caldo’ che rischia di mettere a dura prova i rapporti tra Svizzera e Unione Europea è quello della libera circolazione. Ben tre iniziative popolari, ancora allo stadio della raccolta delle  firme, si prefiggono di limitare l’immigrazione in Svizzera.

L’iniziativa popolare lanciata dall’Unione democratica di centro – intitolata «Contro l’immigrazione di massa» – vieta espressamente la conclusione di trattati internazionali che non permettono alla Svizzera di gestire in maniera completamente autonoma l’immigrazione e prevede un adeguamento dei trattati già esistenti in caso di accettazione dell’iniziativa.

La popolazione svizzera non sarà comunque chiamata ad esprimersi su queste iniziative prima di qualche anno, visto che la scadenza del termine per la raccolta delle 100’000 firme necessarie è stata fissata per fine 2012/inizio 2013.

Finora i cittadini svizzeri sono stati chiamati tre volte alle urne per esprimersi sulla libera circolazione. Nel 2000 hanno accettato col 67,2% di sì il primo pacchetto di accordi bilaterali con l’UE, che comprendeva anche l’accordo sulla libera circolazione delle persone. Cinque anni dopo, il 56% dei votanti ha approvato l’estensione dell’accordo ai dieci nuovi Stati che avevano aderito all’UE nel 2004. L’ultima votazione si è tenuta nel 2009. Il popolo ha accettato (59,6% di sì) di ricondurre l’accordo dopo il 2009 e di estenderlo anche a Bulgaria e Romania.

Gli ambienti economici e la maggior parte dei politici hanno sempre sostenuto a spada tratta la libera circolazione, sottolineando che per il paese è stata fonte di crescita. Negli ultimi tempi, però, le fila dei contrari si sono ingrossate, parallelamente alla crescita demografica (dovuta soprattutto all’immigrazione dai paesi dell’UE) e ai problemi che essa pone, in particolare in materia di alloggio. La libera circolazione è anche in parte all’origine della maggiore pressione constatata sui salari. Stando a un rapporto della Segreteria di Stato dell’economia, nel 2010 il 41% dei datori di lavoro non rispettava i minimi salariali fissati nelle convenzioni collettive di lavoro, contro il 30% nel 2009.

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