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TPF: chiesta pena con condizionale per presunto jihadista

Il tribunale penale federale di Bellinzona KEYSTONE/TI-PRESS/SAMUEL GOLAY sda-ats

(Keystone-ATS) Il pubblico ministero ha chiesto due anni di carcere con la condizionale con un periodo di prova di tre anni per il presunto jihadista processato oggi al Tribunale penale federale (TPF) di Bellinzona. La difesa ha auspicato l’assoluzione.

La sentenza è attesa per domani alle 14.00.

La procuratrice federale ha rinunciato a domandare una pena da scontare visto che è da poco diventato padre, ha collaborato dopo l’arresto e lascia sperare in una possibile “deradicalizzazione”. Dal canto suo, il difensore ha contestato formalmente le accuse, sostenendo che il suo assistito non ha fatto nulla di penalmente reprensibile.

L’imputato, un 26enne svizzero di origini libanesi cresciuto a Winterthur (ZH), era stato arrestato il 7 aprile 2015 a Zurigo mentre si apprestava a prendere un aereo per Istanbul in Turchia, con l’apparente intenzione di unirsi ai combattenti dello Stato islamico (Isis) in Siria o Iraq. Il Ministero pubblico della Confederazione (MPC) lo accusa di violazione della legge federale che vieta i gruppi Al Qaida e Stato Islamico, eventualmente di sostegno a un’organizzazione criminale e di ripetuta rappresentazione di atti di cruda violenza.

La sentenza è attesa con apprensione dall’MPC. Il procuratore generale Michael Lauber aveva parlato lo scorso marzo, in una intervista al “Tages-Anzeiger”, di “leading case”, una sorta di caso pilota che costituirà un precedente nella lotta contro il terrorismo a livello giudiziario: “Vogliamo sapere se basta, per una condanna, che qualcuno fisicamente si presenti all’aeroporto con lo scopo di andare in una zona di combattimenti”. “Noi pensiamo che basti”, aveva detto Lauber.

In aula l’imputato ha contestato le accuse. Egli non ha nascosto di provare simpatia per i musulmani che scelgono di morire come martiri. Sin da quando era bambino ha desiderato per sé stesso il martirio, ha dichiarato, ma ha poi relativizzato aggiungendo che avrebbe potuto diventare un martire anche aiutando altre persone per poi morire di morte naturale. “Sarà Allah a decidere se morirò da martire o no”, ha concluso l’imputato, sostenendo di aver voluto lasciare la Svizzera per rendersi utile e che non aveva alcuna intenzione di uccidere.

Il giovane non ha tuttavia fornito indicazioni concrete sullo scopo del viaggio. Non ha neppure spiegato chi voleva o sperava di incontrare dopo il suo arrivo in Turchia.

Reagendo a tali dichiarazioni la rappresentante dell’MPC ha rilevato che un’analisi del suo profilo di utente di internet ha evidenziato “intense ricerche in rapporto con l’Isis”. Per contro, non è stato trovato nulla che possa dimostrare l’intenzione di voler fornire un aiuto umanitario, ha affermato la procuratrice federale.

Per la rappresentante dell’accusa è chiaro che il giovane voleva andare in Turchia “con lo scopo di unirsi allo Stato islamico e morire come martire”. Alla madre avrebbe dichiarato che si recava in Germania per visitare un amico malato. Prima del previsto volo il presunto jihadista avrebbe inoltre anche diffuso, tramite l’app di messaggistica Telegram, immagini “di barbara violenza” contro esseri umani, tra cui decapitazioni. L’imputato ha sostenuto di aver visto per la prima volta queste foto quando è stato interrogato dagli inquirenti.

Nella sua requisitoria la procuratrice ha definito “asserzione autoprotettiva imparata a memoria” l’affermazione dell’imputato secondo cui si trattava di un viaggio a solo scopo umanitario: da nessuna parte – ha sostenuto – si parla di martirio per opere assistenziali. A suo avviso, l’imputato ha mostrato sì una certa ingenuità, ma anche una “accresciuta energia criminale”.

In aula sono stati evocati anche aspetti privati, a partire dall’infanzia e dall’ambiente in cui è cresciuto il giovane, che ha assolto un tirocinio di verniciatore per poi svolgere lavori ausiliari in diversi ambiti. Al momento del tentato viaggio la sua compagna era già incinta di due mesi: il bebè è nato nel novembre 2015, ha detto l’imputato. Anche la ragazza era stata lasciata all’oscuro delle sue intenzioni. Nel periodo precedente il previsto viaggio, ha dichiarato il presunto jihadista, i suoi soli amici erano “i fratelli della moschea a Winterthur”.

Tra settembre e dicembre 2014 lo svizzero-libanese, che frequentava la controversa moschea An’Nur di Winterthur spesso citata dai media come luogo di radicalizzazione di giovani partiti per la guerra santa islamica, aveva avuto contatti telefonici regolari con un ragazzo del luogo poi partito con la sorella verso la Siria per sostenere l’Isis. I due adolescenti di 16 e 17 anni sono stati arrestati a fine dicembre 2015 all’aeroporto di Zurigo mentre rientravano in Svizzera, dopo circa un anno di assenza, su un aereo proveniente da Istanbul.

Il giovane aveva avuto altri contatti anche con una persona partita nel febbraio 2015 per la metropoli turca per poi raggiungere, secondo l’MPC, la Siria.

Un agente della polizia cantonale zurighese incaricato di un programma di prevenzione della violenza ha fornito una testimonianza piuttosto favorevole all’imputato, con cui ha detto di essere riuscito a stabilire un rapporto di fiducia. Se ben inquadrato il giovane può rispettare l’ordine giuridico svizzero, ha dichiarato.

Nella sua arringa il difensore ha ammesso che il suo assistito voleva recarsi in Siria, ma non per fare la jihad: voleva semplicemente visitare degli amici. Egli ha inoltre sottolineato che non si è mai reso colpevole di atti di violenza. Non ha mai fatto servizio militare, essendo stato giudicato inabile al servizio. Quanto alle immagini sotto accusa, le avrebbe semplicemente ricevute via chat e non sapeva neppure di averle sul telefonino.

In occasione del processo la polizia cantonale ticinese ha adottato un accresciuto dispositivo di sicurezza a Bellinzona, meno imponente tuttavia di quello disposto in marzo per il processo contro quattro iracheni accusati di essere sostenitori dell’Isis.

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