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Turchia, epurazioni di massa. Esercito sapeva del golpe

A quattro giorni dal fallito golpe, le purghe del presidente turco Recep Tayyip Erdogan colpiscono 60 mila persone tra arresti, sospensioni di dipendenti pubblici e licenze lavorative tolte ai privati (foto d'archivio). Keystone/AP/LEFTERIS PITARAKIS sda-ats

(Keystone-ATS) La furia del presidente turco Recep Tayyip Erdogan non risparmia nessuno. Ora dopo ora, in Turchia si sgrana un rosario di oppositori cacciati o detenuti.

A quattro giorni dal fallito golpe, le purghe del presidente colpiscono 60 mila persone tra arresti, sospensioni di dipendenti pubblici e licenze lavorative tolte ai privati.

Una deriva che spaventa il mondo e spinge il presidente americano Barack Obama a parlare direttamente con l’omologo turco, per la prima volta dopo il putsch, invitandolo al rispetto dei valori democratici. Ankara insiste però nel braccio di ferro con gli Stati Uniti, continuando a chiedere con forza l’estradizione di Fethullah Gulen, che accusa di essere la mente del tentato golpe. Non si ferma neppure il riavvicinamento alla pena di morte, costantemente invocata dalle folle islamiche nazionaliste che ogni sera invadono le strade della Turchia.

Le epurazioni, che in queste ore si aggiornano di continuo, hanno visto oggi nel mirino il settore dell’istruzione, considerato una delle roccaforti della rete di Gulen. Il ministero ha sospeso 15’200 insegnanti pubblici e tolto la licenza a 21 mila docenti privati, molti dei quali impiegati nelle ‘dershane’, le scuole vicine a Gulen, che più volte il presidente Recep Tayyip Erdogan aveva già provato a chiudere.

Nel mirino anche l’università, con tutti i 1’577 decani degli atenei turchi a cui sono state chieste le dimissioni, a questo punto inevitabili. Molti, le hanno già rassegnate. Le purghe non risparmiano neppure gli imam e i professori di religione. La Diyanet, massima autorità islamica che dipende dallo Stato, ha annunciato di averne allontanati 492.

E poi, ancora: un centinaio di sospesi dai servizi segreti e 393 dal ministero della Famiglia, oltre ai 13 mila già cacciati dal ministero dell’Interno (per lo più poliziotti), da quello delle Finanze e dalla magistratura. Numeri spaventosi che fanno gridare da più parti a una sospensione totale dello Stato di diritto.

Continuano a crescere anche gli arresti. Le persone finite in manette con l’accusa di aver complottato con gli insorti sono salite a 9’322. Eppure, le responsabilità sul golpe si fanno sempre più oscure. In un comunicato ufficiale, le Forze armate hanno ammesso di aver saputo dai servizi segreti della preparazione di un colpo di stato già alle 4 di venerdì pomeriggio, con diverse ore di anticipo. Ma perché i golpisti non siano stati bloccati, resta al momento un mistero.

In questo clima, Erdogan insiste per la pena di morte. Dopo aver promesso di ratificarne un’eventuale reintroduzione da parte del Parlamento, ha incassato l’appoggio dell’opposizione nazionalista. Ma su questo, l’Ue si mostra intransigente: in caso di ritorno alla pena capitale, i negoziati di adesione – in corso da più di dieci anni – possono considerarsi interrotti.

Resta serrato anche il braccio di ferro con gli Stati Uniti sull’estradizione di Gulen. Ankara ha fatto sapere di aver inviato 4 dossier con la documentazione relativa alle presunte attività terroristiche ed eversive dell’imam e magnate, che dal 1999 vive in auto-esilio in Pennsylvania. Erdogan l’ha paragonato a Bin Laden, mentre il portavoce del governo turco lo ha definito portatore di un’ideologia “non diversa dall’Isis”. Washington assicura però che sulle procedure di estradizione non farà sconti e continua a chiedere le prove del coinvolgimento di Gulen.

Nonostante le purghe di massa, in Turchia la resa dei conti sembra appena cominciata. A farlo capire, è stato lo stesso Erdogan, avvisando che dopo il Consiglio di Sicurezza Nazionale di domani verrà annunciata “un’importante decisione”.

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