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La Svizzera approfitta veramente degli accordi bilaterali con l’UE?

Il 21 giugno 1999 Svizzera e UE firmavano a Lussemburgo il primo pacchetto di trattati bilaterali. Diciassette anni dopo la via bilaterale appare alquanto incerta. Keystone

Da alcuni mesi, sostenitori e detrattori degli accordi bilaterali si affrontano a colpi di studi economici per cercare di influenzare il dibattito sull'attuazione della iniziativa "Contro l'immigrazione di massa". Se il campo liberale giudica questi accordi cruciali per l'economia svizzera, le cerchie isolazioniste ritengono che una loro disdetta non danneggerebbe la Confederazione. La realtà è certamente più sfumata. 

“Chiunque minimizza l’importanza degli accordi bilaterali gioca consapevolmente con il fuoco”, ha avvertito l’anno scorso il ministro dell’economia Johann Schneider-Ammann. Sul fronte opposto, dall’accettazione dell’iniziativa “Contro l’immigrazione di massa” nel febbraio 2014, Christoph Blocher continua a relativizzare la portata di questi accordi, il cui primo pacchetto (bilaterali I) è entrata in vigore nel 2002. “La Svizzera non crollerà senza questi cosiddetti accordi bilaterali”, ha affermato recentemente il leader storico dell’Unione democratica di centro (UDC) sul suo canale televisivo privato Teleblocher.

A chi credere allora? Molti economisti hanno tentato di determinare negli ultimi mesi quali effetti reali tali accordi hanno avuto e potrebbero avere anche in futuro sulla crescita economica in Svizzera. La Segreteria di Stato dell’economia (SECO), che fa parte del dipartimento di Johann Schneider-Ammann, ha stimato che, in caso di disdetta dei bilaterali I, il prodotto interno lordo (PIL) subirebbe nei prossimi 20 anni una contrazione di 460 a 630 miliardi di franchi. L’economia svizzera perderebbe quindi un importo pari al reddito nazionale di un intero anno, rileva il rapportoCollegamento esterno della SECO, che si basa su due studi realizzati dagli istituti di ricerca Bak di Basilea e Ecoplan.

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Una disdetta del solo accordo sulla libera circolazione delle persone (ALCP) e un ritorno alle quote per gli stranieri, come auspicato dall’UDC, comporterebbe una diminuzione del PIL di 3 – 4,5 % entro il 2035. Secondo la SECO, una rinuncia agli altri sei accordi bilaterali I (ostacoli tecnici al commercio, appalti pubblici, agricoltura, trasporti terrestri, trasporto aereo e ricerca) avrebbe un impatto più ridotto per l’economia nazionale. Alcuni settori, come quello della ricerca, ne sarebbero però “pesantemente colpiti”. 

Le grandi aziende, le piccole e medie imprese, i consumatori, ma anche la classe media: tutti hanno approfittato dei bilaterali, risulta da un altro studioCollegamento esterno pubblicato da Avenir Suisse, un laboratorio di idee liberali. Da parte sua Economiesuisse, la più grande associazione economica svizzera, ha calcolatoCollegamento esterno che, senza gli accordi bilaterali, la crescita pro capite tra il 2002 e il 2014 sarebbe stata inferiore del 5,7%. In altre parole, ogni persona guadagnerebbe oggi, in media, 4’400 franchi all’anno in meno. 

Crescente malcontento dei sindacati 

I dirigenti dei più importanti sindacati svizzeri continuano a sostenere ufficialmente gli accordi bilaterali con l’Unione europea, ma chiedono misure più forti per lottare contro il dumping salariale. Si delinea però un crescente distacco dalla base. 

“Gran parte dei sindacati ritengono ormai che sia meglio proteggere i confini invece di tentare di proteggere i loro salari. Se non c’è una forte azione sindacale, il prossimo voto europeo sarà un insuccesso”, ha avvertito recentemente Alessandro Pelizzari, responsabile del sindacato UNIA a Ginevra, nelle colonne del quotidiano Le Temps.

Risultati molto variabili 

Questa proliferazione di studi volti a dimostrare i vantaggi degli accordi bilaterali non è frutto del caso. Continua infatti ad aumentare il numero di scettici nei confronti di quella che il Consiglio federale ha considerato come la “via reale” dopo il no espresso dal popolo nel 1992 al progetto di adesione allo Spazio economico europeo (SEE). I sostenitori della via bilaterale rimangono ancora in maggioranza, ma hanno perso 12 punti rispetto ad un anno, risulta da un sondaggio condotto dall’istituto gfs.bernCollegamento esterno.

Il nervosismo è quindi palpabile da parte delle autorità, ma anche da parte delle principali associazioni economiche del paese in vista dell’attuazione dell’iniziativa “Contro l’immigrazione di massa” e di una probabile nuova votazione sugli accordi bilaterali. 

Le cerchie isolazioniste sono passate rapidamente al contrattacco. Economista e giornalista presso la “Weltwoche”, un settimanale che difende la tesi dell’UDC, Florian Schwab ha analizzato per conto dell’uomo d’affari ticinese Tito Tettamanti diversi studi realizzati sull’impatto dei bilaterali. La sua conclusione: non c’è consenso scientifico su un effetto positivo statisticamente significativo. “Questi accordi non sono così esistenziali, come viene spesso asserito, per l’economia svizzera. Eventuali perdite potrebbero essere compensate da altre misure di politica economica”, afferma Schwab. 

“Questi studi giungono in un momento cruciale per il futuro della via bilaterale. Non è quindi sorprendente che i risultati variano molto a seconda della metodologia e del punto di vista dei loro autori”, dice Cenni Najy, ricercatore presso forausCollegamento esterno, un laboratorio di riflessione sulla politica estera della Svizzera. 

Quale modello di crescita? 

Una cosa è certa: si sta progressivamente sgretolando il consenso sui vantaggi della via bilaterale, largamente condiviso in occasione della votazione del 21 maggio 2000 – allora, l’UDC non aveva sostenuto attivamente il referendum. Questo non solo per via di un crescente euroscetticismo della popolazione, ma anche per gli effetti negativi legati all’immigrazione: dumping salariale, aumento dei prezzi del settore immobiliare in alcune zone del paese, strade saturate, treni sovraffollati, ecc. Effetti che le autorità non sono state in grado di anticipare. 

“Questi studi giungono in un momento cruciale per il futuro della via bilaterale. Non è quindi sorprendente che i risultati variano molto a seconda della metodologia e del punto di vista dei loro autori”.
Cenni Najy, ricercatore presso foraus

“La maggior parte degli studi si accontentano di analizzare freddamente l’impatto positivo degli accordi bilaterali sul PIL o la flessibiliità del mercato del lavoro. Gli effetti negativi della forte immigrazione, come la pressione in materia di infrastrutture o il dumping salariale e sociale, non sono quasi presi in considerazione”, osserva Cenni Najy.

Accettando, di stretta misura, l’iniziativa “Contro l’immigrazione di massa”, la maggioranza degli svizzeri ha tuttavia voluto inviare un segnale alle autorità, affinché tengano maggiormente conto delle loro preoccupazioni, ritiene Cenni Najy. “Ma anche oggi, la classe politica, in particolare a livello cantonale, continua a sottovalutare i problemi. Dal 9 febbraio 2014, si discute di quote di immigrazione o di una preferenza nazionale, ma la questione centrale, legata al modello di crescita desiderato, non viene mai affrontata. Eppure, se vogliamo frenare l’immigrazione, bisogna dapprima ridurre l’attrattiva del nostro paese. Ma oggi, molti Cantoni praticano ancora una politica fiscale aggressiva per attrarre multinazionali straniere e personale espatriato”. 

Attenzione agli effetti più ampi 

Professore di geografia politica presso il Politecnico federale di Losanna (EPFL), Jacques Lévy avanza a sua volta delle riserve su questi studi economici che tentano di misurare in franchi gli effetti di una politica, il cui impatto complessivo rimane difficile da quantificare. L’esperto mette tuttavia in guardia contro la tentazione di ripiegarsi, una strategia che non ha mai giovato a nessuna nazione. “Tutti gli esempi di chiusura di un paese o regione al mondo, a partire dal 20esimo secolo, evidenziano gravi problemi di sviluppo. Questo è ancora più vero dal momento che viviamo oggi in un mondo in rapido cambiamento”, avverte Lévy. 

Negli ultimi tempi, diverse personalità politiche hanno messo a loro volta in guardia contro gli effetti più ampi di un abbandono degli accordi bilaterali. Tra questi l’ex ministro Pascal Couchepin. “Il problema politico non è menzionato [in questi studi]. Una sorta di guerra economica con l’UE sarebbe catastrofica per gli investimenti e il morale in Svizzera”, ha dichiarato Couchepin in un’intervista al canale televisivo SRF. Tanto più che, nonostante la diversificazione geografica del commercio, l’UE rimane di gran lunga il principale partner economico della Svizzera.

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Agli occhi dei detrattori dei bilaterali, tuttavia, sembra improbabile una simile guerra commerciale. In primo luogo perché la Svizzera importa di più dall’Unione europea di quanto esporta nei Ventotto. Agevolazioni degli scambi avvantaggiano quindi soprattutto i paesi dell’Unione.

Le tappe principali della via bilaterale 

Il 6 dicembre 1992, i cittadini svizzeri rifiutano con il 50,3% dei voti la proposta di adesione allo Spazio economico europeo (SEE). Il Consiglio federale congela quindi la domanda di adesione all’UE, presentata qualche mese prima, e opta per la negoziazione di accordi settoriali con Bruxelles. 

Firmato il 21 giugno 1999, il primo pacchetto di accordi bilaterali viene approvato dal 67,2% dei votanti il 21 maggio 2000. I sette accordi (bilaterali I) entrano in vigore il 1° giugno 2002. Il 25 settembre 2005, l’estensione dell’accordo sulla libera circolazione delle persone ai 10 nuovi membri dell’UE è approvata dal 56% dei votanti. 

Una seconda serie di accordi bilaterali viene firmata il 26 ottobre 2004 tra la Svizzera e l’UE. A differenza del primo pacchetto di trattati bilaterali, questi nove accordi non sono legalmente vincolati l’uno all’altro. I bilaterali II non sono solo di natura economica, ma comprendono anche settori quali la sicurezza, l’asilo, l’ambiente e la cultura. Solo l’accordo di associazione a Schengen/Dublino viene combattuto da un referendum. Il 5 giugno 2005, il popolo svizzero approva questo trattato con il 54,6% dei voti. 

Il 9 febbraio 2014, il 50,3% dei votanti approva un’iniziativa dell’UDC, che esige la reintroduzione di quote sull’immigrazione. Più di due anni dopo voto, il governo sta ancora cercando di trovare una soluzione con Bruxelles al fine di non compromettere l’accordo sulla libera circolazione delle persone e, quindi, l’intero primo pacchetto di accordi bilaterali. Nulla, tuttavia, sarà probabilmente sbloccato prima del 23 giugno, il giorno del referendum britannico sull’appartenenza all’UE.

Traduzione di Armando Mombelli

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