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«Debra Milke», condannata a morte senza prove

Debra Milke e il figlio Christopher Debra Milke

Rinchiusa da più di 20 anni nel braccio della morte in Arizona, con l'accusa di aver ucciso suo figlio per 5'000 dollari, sulla base di prove inesistenti. È il dramma vissuto da Debra Milke, tema di un documentario degli svizzeri Jean-François Amiguet e Gesenn Rosset.

«Debra Milke», documentario in competizione al al Festival internazionale del film e forum sui diritti umani (FIFDH) di Ginevra, è la storia di un’assurda condanna a morte. Una sentenza implacabile, pronunciata sulla base di una presunta confessione, che la «rea confessa» ha sempre negato. Ma in un’America che preferisce uccidere tre innocenti che lasciar liberi dieci colpevoli, come sottolinea «Justice Denied», il giornale dei condannati per sbaglio, questa «madre snaturata» è diventata il simbolo del male assoluto. 

Debra è una donna sola. Figlia di genitori separati, si illude di trovare un po’ di conforto in Mark Milke, un uomo violento, alcoolizato e drogato, da cui ha un figlio, Christopher. Ma il marito non riesce a sovvenire ai bisogni della famiglia. Stufa di subire continui soprusi, la ventiseienne decide di divorziare.

Il 2 dicembre 1989, Christopher, quattro anni, chiede di andare a vedere San Nicolao al centro commerciale di Phoenix, in Arizona. Lo accompagna James Styres, un amico di famiglia.

Poco dopo, è ritrovato assassinato nel deserto, con tre colpi di pistola alla testa.

James Styres e il suo complice, Roger Scott, confessano di aver portato il bambino nel deserto e di averlo ucciso su ordine della madre, che avrebbe agito con un movente ben preciso: intascare il premio dell’assicurazione sulla vita, 5’000 dollari.

Confessione senza testimoni, nè registratore

Armando Saldate, un ispettore spavaldo e un po’ troppo sicuro di sé, è incaricato di interrogare Debra. La convoca nella stazione di polizia di Florence e a tu per tu, senza nessun testimone, le si piazza davanti, le mette le mani sulle ginocchia e le annuncia a bruciapelo: «Abbiamo ritrovato tuo figlio. E’ stato assassinato e sei in arresto. Puoi fidarti di me, raccontami tutto».

«Ho cominciato a piangere, a gridare, ero sotto choc!» si rimemora Debra, una diafana bionda dai grandi occhi azzurri, palesemente sconcertata dall’inverosimile macchina giudiziaria che si è messa in moto contro di lei.

L’interrogatorio durerà mezz’ora, senza testimoni, né avvocati – Debra ne aveva chiesto uno, ma Saldate le risponde che a quell’ora è troppo tardi. La deposizione non sarà registrata, né tantomeno firmata dall’imputata, ma Saldate afferma che Debra ha confessato di aver ucciso suo figlio «perchè non voleva che diventasse come suo padre». Ma non c’è nessuna prova materiale. 

I media e l’opinione pubblica si scatenano. Debra Milke è il diavolo, la madre sciagurata che «non avrebbe esitato ad uccidere anche un altro figlio, se l’avesse avuto. Se non fosse stata colpevole, Dio avrebbe fatto in modo che i giurati non la condannassero», afferma imperterrita una passante.

Al processo Debra, imbottita di medicine, si dondola sulla seggiola. La sentenza è implacabile: pena di morte, come per James Styers e Roger Scott. La data dell’esecuzione sarà fissata al 29 gennaio 1998 e la condannata potrà scegliere fra la camera a gas e l’iniezione letale. Opterà per l’iniezione letale.

Processo riaperto 

Ma la giovane donna continua a proclamare la sua innocenza. Nel carcere di massima sicurezza, Debra cerca di non impazzire. «Leggo, scrivo, faccio yoga, ascolto musica. Ho trovato un modo per non diventare come l’ambiente che mi circonda», racconta.

Paul Huebl, un giornalista di una televisione locale, cerca di fare riaprire l’inchiesta. Fa venire la madre di Debra dalla Svizzera, contatta i giurati che, per tutta risposta, gli buttano giù il telefono. Ma alla fine una di loro si decide a parlare: nella sala della giuria – e non in quella dell’udienza – Saldate aveva fatto trasmettere una cassetta in cui i parenti e amici di Debra la descrivevano come una donna fredda e senza cuore. Ed è quella cassetta che ha convinto la giuria.

Ma Lori Voepel e Mike Kimerer, i due nuovi avvocati di Debra, non si perdono d’animo. Considerano i metodi di Saldate discutibili e le sue convinzioni basate solo su intuizioni personali. Fanno appello e il processo è riaperto nel 2008, vent’anni dopo l’omicidio. «Alla giustizia non piace tornare indietro perchè quante condanne si basano sulle accuse di Saldate e di altri ispettori come lui?», si chiede Lori Voepel.

La madre di Debra, Renate Janka, non molla. Va ad abitare vicino alla prigione, crea comitati di sostegno su internet. Ma è dura: «Non ho piu’ paura, afferma in lacrime. Sono più di venti anni che non tocco le sue mani o i suoi capelli, è l’inferno! Ho parlato con lei solo tramite questo stupido telefono. Ed è lei che dice a me: mamma, non ti preoccupare. Non ce la faccio più».

Nel frattempo Debra Milke, matricola 83533, aspetta che si compia il suo destino. La data dell’esecuzione non è stata fissata, ma potrebbe diventare la terza donna condannata a morte in Arizona. Secondo i registi del film, però, stavolta ci sono buone possibilità che sia riconosciuta innocente.

«Ho fatto il meglio con quello che avevo, dice la donna sommessamente. Due cose mi pesano: aver perduto mio figlio ed essere giudicata colpevole».

Secondo Jacques Secretan, un giornalista svizzero autore di «Des innocents condamnés à mort», (edizioni Pierre-Marcel Favre), 3’600 persone si trovano nel braccio della morte negli Stati Uniti, tra cui un centinaio di donne. Debra Milke potrebbe essere la seconda donna ad essere riconociuta innocente da quaranta anni, dopo Sabrina Batler, nel 1995.

Dal 1973, più di 130 persone sono state liberate dopo essere state condannate a torto. Le principali cause degli errori giudiziari sono l’indigenza nella quale versa il 97% dei condannati a morte, l’inadeguatezza della difesa, le derive della giustizia e della polizia, testimonianze inventate e pregiudizi razziali. Secondo Jacques Secretan, nel caso specifico di Debra Milke, a parte l’ispettore, un procuratore «duro», un avvocato incompetente, dei giurati perplessi e dei giudici che hanno interpretato la legge a modo loro sono stati determinanti per condannare un’innocente.

In Svizzera, vari movimenti lottano contro la pena di morte. Lifespark, un’ONG creata nel 1993, mette in contatto epistolare condannati a morte con persone desiderose di corrispondere con loro. Ha arrangiato più di 1000 partenariati e attualmente 100 condannati a morte sono in attesa di trovare una persona cui scrivere. 

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