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“I cercatori d’oro vogliono la nostra morte”

Dirty Paradise, il dramma degli Indiani Wayana della Guyana francese

La maledizione dei wayana, gli indiani francesi dell'Amazzonia, è di vivere in una regione ricca d'oro sfruttata fino alla devastazione. "Dirty Paradise", del regista svizzero Daniel Schweizer, è un grido di allarme. Intervista.

Parana, Mélanie, Akama, Muriel, Etume. Esseri umani, come noi, che abitano la Terra, come noi.

I loro nomi, i loro volti, i loro sguardi riempiti di tristezza e i loro destini minacciati riguardano anche chi, come noi, abita nella parte più soleggiata del Pianeta.

La spregiudicata spoliazione delle risorse naturali e la costante distruzione della natura per fare sempre e solo più soldi, sono problemi da cui molti si ostinano a chiamarsi fuori. Ma in realtà è un affare nostro, soprattutto nostro.

Questo ci racconta, con straordinaria sensibilità, Dirty Paradise , il documentario di Daniel Schweizer presentato al Festival internazionale del film di Locarno. Un film che denuncia il dramma degli indiani Wayana della Guyana francese, le cui risorse naturali sono minacciate dallo sfruttamento intensivo dell’oro, che inquina i fiumi con il mercurio. Un film che ci parla di una doppia catastrofe – ecologica e umana – nel cuore della foresta amazzonica. Un film che ci rivela una morte annunciata, ma non ineluttabile.

Nel tragico destino di questo popolo, si ripropone il confronto universale tra Davide e Golia, una minoranza confrontata con una sfida troppo grande: lo strapotere sovranazionale dell’economia globalizzata. “In questo piccolo territorio europeo d’Amazzonia – dice a swissinfo.ch il regista Daniel Schweizer – si sta consumando il peggio della mondializzazione”.

E le parole di Mélanie, capa villaggio di Kayodé e madre di 6 bambini, non lasciano spazio ad interpretazioni: “I cercatori d’oro vogliono la nostra morte”.

swissinfo.ch: Dopo una trilogia sull’estremismo di destra, ecco un documentario totalmente diverso. Come ha maturato questa scelta?

Daniel Schweizer: Dopo questa serie sull’estrema destra radicale, ho sentito l’enorme bisogno di tornare a filmare in empatia, con persone che avrei potuto amare, seguire, accompagnare e forse anche aiutare, come nel caso del mio documentario sull’AIDS Vivre Avec.

Il caso ha voluto che incontrassi delle persone che mi hanno parlato degli indiani Wayana. E mi sono subito ricordato di un libro della mia infanzia Parana, il piccolo indiano. Per me, quel libro, era la rivelazione del paradiso, della bellezza sulla terra, della pace, dell’armonia. Quando ho saputo che gli indiani erano minacciati, ho voluto sapere che cosa potesse succedere di così grave nella Guyana francese, un territorio europeo in Amazzonia.

swissinfo.ch: Quale è stato il suo primo approccio?

D.S.: Sono partito alla ricerca di Parana. Il primo anno non l’ho incontrato, era partito nelle montagne a cercare l’argilla. Ma ho conosciuto figli e nipoti e ho promesso loro che sarei tornato. Con il tempo e con grande rispetto, ho conquistato la loro fiducia acquisendo nel contempo la legittimità di poterli filmare e di raccontare la loro storia: il dramma umano e ambientale di una tribù amerindiana che rifiuta di scomparire nel silenzio e nell’indifferenza.

swissinfo.ch.: Lei si è dunque preso tutto il tempo necessario per realizzare questo documentario e stabilire un legame aperto con gli indiani Wayana.

D.S.: Il documentario è il frutto di un approccio graduale durato quattro anni, diversi viaggi in Amazzonia, numerosi incontri. Per me era importante condividere con gli indiani Wayana ogni fase del mio documentario. Non è stata rubata una sola immagine, non c’è stata nessuna forzatura. Dirty Paradise è un progetto che si è sviluppato e che è cresciuto insieme a loro. L’originalità e la forza del documentario risiede proprio nel ruolo attivo assunto dai Wayana.

Sono loro a prendere la parola, sono direttamente loro a raccontarci la solitudine, la sofferenza, l’inquietudine e la disperazione che fanno parte della loro vita quotidiana. E sono sempre loro a chiederci di aiutarli a lottare. In un certo senso Dirty Paradise è il portavoce del loro dramma.

swissinfo.ch: L’impostazione che ha dato al suo documentario sembra quasi un lusso, in un mondo che non trova il tempo per fermarsi a riflettere…

D.S.: E’ vero, oggi è sempre più raro darsi il tempo di girare un documentario, è quasi un lusso, ma non avrei potuto fare diversamente. Non mi interessano i reportage dove in tre settimane si fa tutto. Può andare bene per alcuni soggetti, ma se vuoi incontrare l’altro, se vuoi condividere qualcosa con gli altri, l’approccio deve essere completamente diverso.

Nell’era dell’informazione fast-food, si incatenano rapidità, precipitazione, superficialità, parzialità. Rifiuto categoricamente questo modo di lavorare, che dà soltanto l’illusione di conoscere la realtà.

swssinfo.ch: Che cosa ha scoperto girando questo documentario?

D.S.: Che non basta sorvolare una regione con il proprio aereo o elicottero per conoscere una realtà. Bisogna avvicinarsi alla terra, incontrare le persone, toccare con mano la loro quotidianità. Non basta parlare teoricamente del riscaldamento del pianeta, occorre andare direttamente laddove vivono le vittime degli sconvolgimenti climatici.

Ed è quello che ho fatto con gli indiani Wayana, a cui finora nessuno aveva dato la parola. Sono stati realizzati dei documentari sull’estrazione dell’oro, sullo sfruttamento delle risorse ambientali dell’Amazzonia, sul traffico di esseri umani: ma tutti, quasi sistematicamente, si dimenticano degli indiani.

Eppure loro da sempre vivono in armonia con la natura, applicano principi di sviluppo sostenibile, rispettano l’ecosistema, gli esseri viventi con i quali dividono la terra. E oggi la globalizzazione ruba loro la terra sotto i piedi, sconvolgendo il loro mondo.

swissinfo.ch: Quali sono le speranze che ha posto in Dirty Paradise?

D.S: Il destino dei wayana è in fondo una storia universale: sono un popolo tra molti altri che lotta contro il saccheggio delle risorse naturali e per la sopravvivenza. Come noi abitano un medesimo mondo. Spero che con il mio film non si possa più far finta di niente, distogliere lo sguardo e dire: non sapevo.

Françoise Gehring, Locarno, swissinfo.ch

Il mercurio viene usato dai cercatori d’oro perché ne rivela la presenza. Per amalgamare 1 kg d’oro si utilizzano 1,3 kg di mercurio.

Nei fiumi degli indiani Wayana – nella Guyana francese, tra il Surinam e il Brasile – vengono riversati ogni anno tra 5 e 10 tonnellate di mercurio.

Un Wayana su due ha un tasso di mercurio 4 volte superiore ai tassi minimi ammissibili dalle autorità sanitarie europee.

Nei territori indiani ci sono 1’200 Wayana e oltre 10 mila cercatori d’oro clandestini.

Nel 2001 è stata inoltrata una denuncia contro ignoti per avvelenamento da mercurio. Un gruppo di indiani si è costituito parte civile presso il Tribunale di Cayenna. La denuncia è ancora nella fase istruttoria.

Dirty Paradise sarà il perno di una campagna in favore degli indiani Wayana che inizierà nella primavera del 2010 in Svizzera romanda e nella Svizzera tedesca.

Daniel Schweizer potrà contare sul WWF e sull’organizzazione non governativa Survival France per promuovere il film e il dibattito sull’impatto che la devastazione ecologica ha sugli esseri viventi.

Le ONG della Guyana intendono lanciare una campagna internazionale in concomitanza con la proiezione ufficiale del documentario nelle sale cinematografiche.

Un’associazione di Ginevra avrà il compito di coordinare i contatti tra le diverse ONG e le strutture umanitarie in Europa.

Daniel Schweizer è nato il 24 marzo 1959 a Ginevra. Formazione in Belle Arti presso l’École supérieure d’Art Visuel di Ginevra. Nel 1982 prosegue la sua formazione in Francia, presso l’École supérieure d’Études cinématographique di Parigi. Dal 2003 insegna video presso la Haute école d’art et de design a Ginevra.

E’ membro di diverse associazioni di cineasti e lavora a Ginevra, Sion, Parigi e Zurigo come realizzatore e produttore indipendente. Collabora con grandi reti televisive europee come ARTE (Francia e Germania), TSR/TSI/SFDRS (Svizzera) e ZDF (Germania).

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