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Chi ha paura di «Noi altri»?

Un esploratore presso la tribu dei pigmei all'inizio del 20° secolo. MEG

Il Museo d'etnografia di Ginevra dedica un'esposizione allo sguardo dell'uomo sulla varietà linguistica, culturale o religiosa nel mondo.

Un’occasione per riflettere sull’ancestrale paura di trovarsi confrontati all’«altro», diverso e per questo non sempre capito.

«Siamo tutti – chi più chi meno – un po’ etnocentrici. Tendiamo cioè a definirci gli unici ‘normali’ in un mondo popolato da gente ‘diversa’». Philippe Mathez, curatore della mostra ‘Nous autres’ presso il Museo d’etnografia di Ginevra (MEG) lancia quella che potrebbe sembrare una provocazione ma che, pensandoci bene, non è che una constatazione.

Le differenze culturali, politiche o religiose, o anche semplicemente un colore di pelle diverso, sono infatti spesso fonte di chiusura verso l”altro’, che ‘scandalosamente’ non è uguale a noi.

Ma chi è l’altro? Un selvaggio, un modello o semplicemente un nostro simile? «I punti di vista possono essere diametralmente opposti», sottolinea Mathez. «Basta visitare l’esposizione per rendersene conto». Al visitatore non resta quindi che cominciare il suo ‘viaggio interiore’ nel museo.

Babele linguistica

Nell’ampio atrio illuminato, il tema della diversità è introdotto in modo piuttosto convenzionale. In una grande vetrina sono disposte a casaccio decine di statuette tipiche di vari paesi: dalla matrioska russa alla ballerina di flamenco spagnola, passando per la coloratissima bambolina peruviana fino alla classica statuetta in legno africana.

Tanti souvenir di viaggio, dall’aria quasi familiare, che spesso sono posti in bella mostra anche sui mobili di casa e creano un senso di rassicurante apertura verso il mondo.

Una sensazione che però viene scombussolata entrando nella prima sala dell’esposizione, dove la scenografia cambia improvvisamente. Si passa infatti ad una piccola stanza dalla luce soffusa, dal cui soffitto fanno capolino tanti piccoli tubi sonori che ostacolano il percorso.

Per proseguire la visita occorre scansarli. Non senza però prima accostarvi l’orecchio e sentire che lo strano ronzio che emanano non sono che decine di discorsi in lingue differenti. In questa Babele il visitatore si trova spiazzato fra il piacere delle diverse sonorità e la difficoltà dell’incomprensione.

Paura dell’altro

Nella sala seguente, la diversità è ancora una volta messa in vetrina. Una vetrina di finto ghiaccio che simboleggia i pregiudizi verso l’altro, difficili da sciogliere, soprattutto quando non condivide i nostri stessi costumi. Come la ricetta culinaria a base di carne di cane, alimento consumato normalmente in alcuni paesi asiatici, e che in occidente diventa il manifesto di una campagna animalista.

«Quando l’altro ha usanze diverse dalle nostre, si instaurano la paura e i pregiudizi, che talvolta si trasformano in xenofobia», spiega Philippe Mathez.

Per simboleggiare questo atteggiamento, una sala del MEG è stata allestita come un’oscura foresta. Dentro i tronchi degli alberi si intravede l’immagine dello straniero. Agli occhi di chi ha paura esso assume le sembianze mostruose di un extraterrestre, di un essere informe o di una maschera dall’espressione arcigna.

Spiegazioni scientifiche

Anche gli studiosi si sono interessati al tema della diversità. Il loro sguardo analitico è evocato in una stanza dove è ricostituito l’ambiente di una vecchia accademia.

Nei polverosi volumi esposti, gli antropologi dell’epoca classificano gli uomini secondo la loro apparenza fisica. «Nel 17° e 18° secolo, gli scienziati hanno commesso l’errore di associare la varietà biologica a quella culturale e sociale», spiega Mathez.

Si è così giunti a giustificazioni della diversità basate su gerarchie razziali, dove chi non corrisponde ad un determinato modello è considerato inferiore, indegno, incapace di vivere nella ‘società normale’ e di adattarvisi.

Il mito dell’arianesimo introdotto da Gobineau (1824-1882) e ripreso poi dal regime nazista non è che un esempio fra tanti di queste teorie.

Dialogare per capirsi

«L’esperienza ha però dimostrato che qualsiasi individuo, poco importa la sua razza, se trasferito in un’altra collettività ne adotta facilmente la cultura», aggiunge il conservatore del MEG.

La società odierna, sempre più multiculturale, lo dimostra. L’altro non vive più isolato in un paese ‘bizzarro’ e lontano. È diventato il nostro vicino, collega di lavoro, amico. Nell’ultima stanza del MEG, etnologi, antropologi, interpreti e immigrati parlano di questa realtà e delle loro personali esperienze.

Si giunge così alla conclusione che, per capirsi ed accettarsi reciprocamente, occorre un lavoro di mediazione: «Da oggetto, l’altro diventa un soggetto, con cui può e si deve dialogare. Solo in tal modo lo si può capire, accettare, e al contempo comprendere noi stessi».

swissinfo, Anna Passera a Ginevra

L’etnonimo è il nome con il quale si designa un’etnia, ossia un gruppo di persone che rivendicano la stessa lingua, origine o cultura.

L’etnonimo che si attribuisce un’etnia è quasi sempre valorizzante, indica qualità umane e nobili.

Quello che gli attribuiscono gli altri è invece spesso negativo.

Alcuni esempi:
– Li chiamiamo Apaches (nemici); loro si definiscono Dine (persone).

– Li chiamiamo Berberi (barbari); si definiscono Imazighen (uomini liberi, nobili).

– Li chiamiamo eschimesi (mangiatori di carne cruda); si definiscono Inuit (uomini).

Esposizione “Nous autres”, fino al 6 agosto 2006 presso il Museo d’etnografia di Ginevra (MEG).
Pubblicazione: “Nous autres”, MEG-collezione Tabou 1-2005, edizioni Infolio, Ginevra.

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