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I ricordi di Boris Mange, svizzero di Siberia

Famiglia
Privé

Un destino fuori dal comune, quello del vodese Boris Mange, la cui famiglia emigrò in Russia prima di tornare in Svizzera nel 1933, in fuga dalla fame e da Stalin. Oggi Mange vive in Canada, dove fabbrica souvenir in vista delle Olimpiadi di Vancouver.

“Ai tempi della scuola, a Losanna, il maestro mi aveva chiesto di raccontare la mia vita all’epoca di Stalin. Avevo scritto quanto eravamo poveri e affamati. Ma avevo anche parlato della fortuna di avere una patria, la Svizzera”.Sono parole che ritroviamo nelle memorie di Boris Mange, affidate alle pagine di un libro pubblicato a Vancouver, sulla costa ovest del Canada, dove vive oggi con la sua famiglia.”Accusandomi di inventare delle storie, il maestro mi avevo chiesto di dimostrare la fondatezza delle mie affermazioni. Molti anni dopo l’era Gorbaciòv – ricorda Mange nel suo libro – mi era stato chiesto perché non avessi mai parlato delle sofferenze della mia famiglia. Di fatto ne avevo parlato, ma nessuno aveva voluto credermi”.

Dal cuore dell’Europa ai margini del nord

Originario di Rougemont, nelle Alpi vodesi, un ceppo della famiglia Mange era emigrato nella Russia degli zar, nel 1824. Come centinaia di altre famiglie vodesi – costrette all’esilio dalla carestia successiva alle guerre napoleoniche del XIX secolo – anche un certo Samuel Mange aveva lasciato le terre vodesi per la colonia svizzera di Chabag, vicino ad Odessa, ai bordi del Mar Nero.

Qualche decennio più tardi le tracce del figlio Edouard vengono reperite a Sarata, un’altra colonia – ma tedesca – che si era stabilita nella regione, l’allora Bessarabia. Edouard Mange muore di tubercolosi nel 1916 e suo figlio Vladimir (che ha conservato il passaporto svizzero) si trasferisce in Siberia, a Isilkul e successivamente a Ekaterinovka, dove acquista una fattoria e un mulino per macinare la colza.

Boris Mange si ricorda le mucche, i cavalli, le galline e le oche dei suoi nonni. “Un cacciatore aveva persino sparato ad un lupo. Mi ricordo come fosse ieri, quei denti lunghi che avevano terrorizzato la mia infanzia”. Poi la svolta. “La nostra vita vacilla nel 1929, quando Stalin assume pienamente e definitivamente il potere. Migliaia di famiglie vengono deportate nelle miniere e nei campi di lavoro al nord e all’est della Siberia”.

Le lacrime e le pance vuote

In quel clima pesante, la famiglia Mange (genitori e quattro figli) ripara a Kustanai (oggi nel Kazakhstan), la città di origine della madre di Boris. Il padre, gravemente malato di tubercolosi, e la nonna sono autorizzati a lasciare l’Unione sovietica e a fare ritorno a Losanna, da dove era iniziato il lungo percorso dell’esilio.

“Quando mia madre viene a sapere della morte di mio padre in Svizzera, ha pianto lacrime amare per giorni interi. Ma noi non conoscevamo il motivo di tanta disperazione. Non poteva dirlo, perché se le autorità sovietiche fossero venute a conoscenza del decesso di nostro padre, non avremmo avuto l’autorizzazione di lasciare l’Unione sovietica”.

Durante il regime stalinista, la popolazione stremata dalla fame soccombe. E sono miloni di milioni di persone. “A Kustanai, grande regione produttrice di cereali, i raccolti erano confiscati per essere fonte di sostentamento nei centri industriali. Ricordo – continua Mange – che raccoglievamo il legno che galleggiava sul fiume e nelle case abbandonate. Candele e lampade a petrolio erano la nostra luce”.

Ma occorreva trovare anche di che nutrirsi. Boris Mange continua così: “I negozi erano vuoti e negli armadi non c’era nulla. Ci capitava di raccogliere dei chicchi di grano, caduti dai treni. Eravamo rassegnati a mangiare erbe, frutti selvatici e un pane poverissimo: un impasto di farina e segatura, un vero pugno nello stomaco. Per fortuna c’erano i pacchetti della Croce Rossa, che spediva la nonna dalla Svizzera: formaggio, prosciutto, cioccolata…”.

Il racconto si fa vieppiù agghiacciante. “C’erano anche stati casi di cannibalismo. Nostra madre – rievoca l’autore – ci raccomandava di stare lontano dagli sconosciuti”. Pagine di verità e di vita vissuta, quelle scritte da Mange, che presto saranno pubblicate anche in francese.

Il ritorno in patria e nuove partenze

Dopo aver finalmente ottenuto il nulla osta per lasciare l’Unione sovietica a destinazione della Svizzera, nel mese di agosto del 1933 la madre e i quattro figli raggiungono Losanna in treno, dopo essere partiti da Mosca.

Sulle rive del Lemano Boris Mange impara il mestiere di orafo, continuando a frequentare la comunità russa. Nel 1944 presta servizio militare nella difesa contraerea (DCA). A Montreux incontra inoltre la donna che diventa sua moglie e con la quale decide di emigrare in Canada, via mare, nel 1955.

Oggi Boris Mange ha 84 anni. Insieme alla moglie Ursula e ai figli Mike e Jocelyne, continua ad essere attivo nella sua fabbrica di Vancouver, che impiega una sessantina di persone. La società Panapo produce oggetti ricordo in vista dei prossimi Giochi Olimpici invernale, nel 2010.

Cravatte, foulard, cucchiaini, piccoli soprammobili e oggettistica di vario genere, sfoggiano i cinque anelli olimpici. Il cerchio, insomma, sembra proprio chiudersi per questo svizzero di Russia, transitato da Losanna – la città olimpica – per infine mettere radici sulla costa ovest del Canada.

All’inizio del XIX secolo, lo zar Alessandro II favorisce in Russia l’insediamento di colonie sulle coste del Mar Nero.

Dopo Zürichtal nel 1803, nel 1822 venne fondata nella regione di Odessa la colonia viticola di Chabag da parte di una dozzina di famiglie vodesi che avevano lasciato alle spalle Vevey. Alla guida della colonia, il botanico Louis-Vincent Tardent.

Battezzata “Chabag” (giardini di sotto, in turco), la colonia cresce e si moltiplica fino alla Prima guerra mondiale. L’arrivo dell’Armata rossa durante la Seconda guerra mondiale, spinge la maggioranza degli svizzeri a rientrare in patria.

Con il titolo “A Long, long way – A life in Siberia, Switzerland and Canada” Boris Mange ha pubblicato le sue memorie presso le edizioni Tribute Books. Una versione francese apparirà prossimamente.

Traduzione e adattamento dal francese, Françoise Gehring

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