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«L’indignazione contro Aung San Suu Kyi è esagerata»

Rohingyas dans des camps de réfugiés au Bangladesh
Circa 500'000 rohingyas vivono in campi di rifugiati in Bangladesh in condizioni estremamente precarie. Keystone/AP/Bernat Armangue

Attacchi dei ribelli musulmani, repressione violenta dell’esercito e fuga di centinaia di migliaia di rohingya in Bangladesh: la crisi che imperversa in Myanmar da agosto ha suscitato reazioni di indignazione a livello internazionale,  respinte da Aung San Suu Kyi. Fine conoscitore del paese, l’editore Matthias Huber difende la leader del governo e premio Nobel per la pace. 

Da fine agosto, quando sono riprese le violenze nell’ovest del Myanmar, oltre 500’000 rohingya hanno cercato rifugio in Bangladesh, dove vivono già 300’000 membri della minoranza musulmana birmana.

Questo esodo ha colto impreparato il paese e la comunità internazionale. Giovedì, il segretario generale Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha parlato di una «situazione umanitaria devastante». Guterres ha chiesto alle autorità birmane di porre fine alle operazioni militari, consentire l’accesso umanitario e garantire il ritorno sicuro e dignitoso dei rifugiati nelle zone di origine.

Matthias Uber
Matthias Huber swissinfo.ch

Dal canto suo, il governo birmano ha deciso di consentire l’accesso dei convogli internazionali allo Stato di Rakhine, teatro di violenze che l’ONU non ha lesinato a definire una «pulizia etnica contro i rohingya».

Membro dell’associazione Svizzera–Birmania e responsabile della casa editrice Olizane, Matthias Huber ha visitato regolarmente il paese dal 1979. A titolo personale, confida a swissinfo.ch la sua analisi della situazione.

Cosa rimprovera alle reazioni della comunità internazionale, delle ONG e di una parte dei media di fronte al dramma che stanno attraversando i rohingya in Myanmar?

Matthias Huber: Questa crisi è spesso illustrata in modo molto unilaterale. I rohingya sono presentati come le uniche vittime e i militari – così come gli altri birmani – come gli unici aggressori. La situazione però è molto più complessa rispetto a questa visione in bianco e nero.

Eppure le violenze perpetrate dall’esercito contro i rohingya sono innegabili.

Certo. L’esercito agisce con grande brutalità. I morti si contano a centinaia e ogni persona morta è una di troppo. Ma contrariamente a quanto dichiarato dal presidente francese Macron, non si tratta di un genocidio. Così facendo, le parole finiscono per non aver più alcun significato.

Ci si aspetta che Aung San Suu Kyi condanni apertamente e in modo fermo gli abusi dell’esercito. Ma è una dirigente politica e ha le mani legate. Se la settimana scorsa non è andata a New York per partecipare all’assemblea generale dell’ONU, è perché probabilmente aveva paura che l’esercito la destituisse durante la sua assenza.

Un’ icona sotto pressione 

La leader birmana Aung San Suu Kyi si vede confrontata con una crescente pressione diplomatica e mediatica dopo le violenze dell’esercito contro i musulmani rohingya, che hanno spinto molti di loro a fuggire verso il vicino Bangladesh. 

Di fronte al Consiglio dei diritti umani a Ginevra, l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Zeid Ra’ad Al Hussein, ha parlato di “un classico esempio di pulizia etnica”. 

I difensori dei diritti umani criticano la dirigente birmana, dopo averla sostenuta durante la sua lunga resistenza contro la dittatura militare.

Poco loquace dall’inizio della crisi, la scorsa settimana il premio Nobel per la pace ha assicurato che la Birmania era “pronta” ad organizzare il ritorno in Bangladesh di diverse centinaia di migliaia di rifugiati rohingya, dicendo che era “profondamente dispiaciuta” per i civili “intrappolati” nella crisi. 

Per quanto riguarda le brutali operazioni dell’esercito contro questa minoranza, la Aung San Suu Kyi si è limitata ad affermare che “le forze di sicurezza hanno ricevuto delle istruzioni per adottare tutte le misure necessarie per evitare danni collaterali e il ferimento di civili”, aggiungendo di “condannare tutte le violazioni dei diritti umani”. 

Queste dichiarazioni non hanno calmato le ong. Manon Schick, presidente della sezione svizzera di Amnesty International, ha denunciato gli eventi in Birmania: “Molto chiaramente, Aung San Suu Kyi ha dimostrato che lei e il suo governo preferiscono ignorare la violenza nello Stato di Arakan, usando menzogne e accusando le vittime. Vi sono prove schiaccianti del fatto che le forze di sicurezza birmane sono impegnate in una vera e propria campagna di pulizia etnica. I soldati prima circondano un villaggio rohingya, sparano ai residenti che fuggono in preda al panico e poi incendiano le case. Sono crimini contro l’umanità”.

Qual è l’origine degli scontri tra birmani e la comunità musulmana rohingya?

I problemi di oggi hanno radice nel periodo coloniale, durante il quale i musulmani sono stati vittime di veri e propri pogrom. All’epoca una parte dei musulmani era economicamente più dinamica rispetto ai birmani. Mentre questi ultimi erano tradizionalmente agricoltori, i musulmani di origine indiana erano commercianti e dunque avevano in mano gran parte dell’economia. Un elemento sufficiente ad alimentare le tensioni.

Per quanto riguarda i rohingya, dicono di essere un’etnia presente sull’attuale territorio del Myanmar dalla notte dei tempi, prima ancora degli altri birmani. Ciò che è storicamente falso. 

La stragrande maggioranza di questo gruppo etnico si era stabilita nella zona di Cox’s Bazar (una città situata all’estremo sud-est del Bangladesh, al confine con il Myanmar, n.d.r.) fino a 200 anni fa. Vi fu portata dai coloni britannici dopo la prima guerra anglo-birmana del 1826. Nella regione di Arakan, che avevano appena annesso, mancava la manodopera necessaria per coltivare le risaie. 

Ciò non toglie che i rohingya abbiano il diritto di essere riconosciuti come cittadini birmani a pieno titolo. 

I rohingya sono l’unica minoranza musulmana in Birmania? 

No. I rohingya provengono dal vicino Bangladesh, mentre gli altri musulmani del paese provengono dall’India meridionale. Ci sono state anche tensioni tra questi musulmani provenienti dall’India e i buddisti nella Birmania centrale, anche se meno acute rispetto a quelle nell’Arakan. Molti di questi musulmani sono preoccupati per la situazione e si dissociano dal movimento rohingya. 

Ma Aung San Suu Kyi non mostra anche un certo disprezzo per i rohingya, popolo della gente comune dal punto di vista dell’élite a cui la leader birmana appartiene? 

Non è escluso, anche se il suo discorso vuole essere inclusivo. Non vi è dubbio che vi sia un complesso di superiorità del popolo birmano rispetto alle minoranze etniche del paese, che rappresentano un terzo della popolazione. 

Ma la Birmania è nel bel mezzo di una transizione democratica, un processo che richiederà tempo. L’esercito detiene tuttora i tre principali ministeri, ossia della difesa, delle frontiere e dell’interno. In questo modo il paese può essere completamente chiuso a chiave. In altre parole, l’esercito continua a controllare la Birmania, anche economicamente e attraverso la corruzione. E le sue priorità non sono le stesse di quelle dei democratici. 

Aung San Suu Kyi, Premio Nobel per la pace, non avrebbe dovuto denunciare con forza la violenza esercitata dall’esercito contro i rohingya? 

Innanzitutto, bisogna dire che è mal consigliata. Ciò che si spiega così:  durante i 50 anni di dittatura militare (1962), il nemico numero uno erano gli studenti. Le università sono state chiuse per anni, così come le scuole elementari. 

Non esiste un’élite in grado di gestire questo paese, più grande di Francia, Svizzera e Belgio, messe assieme. Mancano le competenze. La Birmania è un paese molto tradizionale. Gli anziani hanno un grande peso. Aung San Suu Kyi è circondata da persone molto rispettabili, ma anche molto in là con gli anni. Appartengono ad un’altra epoca. Si trova quindi molto isolata di fronte ai militari, che sono invece molto meglio organizzati. 

Le accademie militari, comprese le scuole private per i loro figli, hanno sempre funzionato bene. L’istruzione è quindi più sul versante dei militari che non della società civile birmana, che manca di competenze. Saranno necessarie generazioni per invertire questa tendenza. 

Per comprendere l’attuale crisi, dobbiamo anche tener conto del divario tra grandi città e zone rurali, che sono estremamente povere. 

L’apertura economica lanciata dal precedente governo ha allargato il divario tra città e zone rurali? 

Assolutamente. Il governo precedente, ancora segnato dai militari, ha cercato di calmare la strada e ha aperto le porte alla classe media nascente con grandi importazioni di automobili, scooter e telefoni cellulari. Ha inondato il paese di beni di consumo, di cui ha beneficiato una piccola élite urbana, senza ricadute per la campagna. L’apertura economica non è stata in grado di favorire uno sviluppo più ampio, data l’assenza di un quadro giuridico adeguato. La mancanza di un catasto, di un codice delle obbligazioni e di altre normative ha raffreddato molti investitori occidentali.


Solidarietà svizzera 

Centinaia di migliaia di rohingya, fuggiti dalla violenza in Birmania, in Bangladesh hanno bisogno di aiuto. La Catena della Solidarietà ha quindi lanciato un appello alle donazioni in Svizzera. 

Le donazioni possono essere effettuate online tramite il suo sito web, l’applicazione “Swiss Solidarity” o il conto postale della Catena della Solidarietà 10-15000-6, con la menzione “Rohingya”

Quattro ong partner della Catena della Solidarietà – Handicap International, Save the Children, Medaire e Terre des Hommes – hanno già inviato sul posto squadre di soccorso per organizzare l’aiuto umanitario e far fronte ai bisogni più urgenti

L’ong Helvetas ha messo a disposizione 250’000 franchi per far fronte a questa situazione umanitaria urgente.

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