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«La richiesta di democrazia non è mai stata così forte»

Dopo una carriera politica, Yves Lerterme è stato vicesegretario generale dell'OCSE e dal 1° giugno 2014 è segretario generale di IDEA International. Reuters

Bisogna preservare le libertà individuali di fronte alla minaccia terroristica, dice a swissinfo.ch l’ex premier belga Yves Leterme, di passaggio a fine novembre a Berna. Segretario generale dell’organizzazione intergovernativa IDEA International, si dice ottimista sui processi democratici in paesi come la Tunisia, il Myanmar e il Nepal.

swissinfo.ch: IDEA International è stata fondata 20 anni fa come organizzazione intergovernativa per promuovere la democrazia nel mondo. Come funziona concretamente questa promozione?

Yves Leterme: Possiamo contare su lavori di ricerca scientifica che servono ai nostri Stati membri a dare fondamenta sicure alla loro azione in favore della democrazia. Questo lavoro è fatto da 60-70 persone a Stoccolma, dove si trova il nostro quartiere generale.

Abbiamo quattro ambiti di azione che utilizziamo come quadro in 20-25 paesi ancora in crisi o appena usciti da una crisi e che cominciano a realizzare dei processi democratici.

Lì il nostro approccio non è quello della ricerca scientifica. Si tratta di sostenere concretamente, per esempio in Bolivia, nello Yemen, in Nepal, nel Myanmar, la costruzione della democrazia, con la realizzazione i processi elettorali, l’elaborazione di una costituzione, l’organizzazione dei partiti politici, il finanziamento dei partiti oppure lo sviluppo economico e sociale.

swissinfo.ch: In questi ultimi anni, la democrazia ha perso terreno in molte regioni del mondo; pensiamo al Medio Oriente, all’Africa settentrionale e all’Asia. I vostri sforzi per rafforzare il potere popolare sono falliti?

Y. L.: No, non credo. Le regioni alle quali lei si riferisce sono regioni in cui la democrazia non aveva preso piede. Quindi non si tratta davvero di passi indietro dal punto di vista della democrazia.

È vero che in paesi come l’Iraq, la Siria, la Libia e altri non si è ancora riusciti a creare delle vere istituzioni, dei processi di scelta dei responsabili da parte dei cittadini. Rimane del lavoro da fare.

Direi però che in generale ci sono segni incoraggianti in queste regioni, per esempio in Tunisia, nel Myanmar o in Nepal.

swissinfo.ch: IDEA non agisce a livello normativo, ma piuttosto informativo, per esempio con la pubblicazione di opuscoli su questioni rilevanti o con moduli di formazione per i legislatori o le autorità elettorali. Cosa avete imparato finora dalla vostra attività internazionale?

“La democrazia non è un bene che si può semplicemente esportare, per esempio dalla Svizzera o dalla Svezia. Si può solo sostenere”.

Y.L.: Quando si parla di democrazia e di aiuto ad instaurare una democrazia, bisogna sapere che la democrazia non è un bene che si può semplicemente esportare, per esempio dalla Svizzera o dalla Svezia verso un determinato paese. Si può solo sostenere.

Dunque, quello che cerchiamo di fare è di aiutare i paesi a innescare processi democratici duraturi, ma sempre partendo da una volontà reale. Non imponiamo mai niente e non facciamo pressione. È necessario che nel paese in questione l’opinione pubblica e i dirigenti, tutti coloro che vogliono cambiare le cose, scelgano davvero la democrazia. Solo a quel punto sosteniamo il loro lavoro.

swissinfo.ch: La Svizzera, membro di IDEA da dieci anni e prossimo presidente di turno, è una democrazia rappresentativa con strumenti di partecipazione popolare molto ampi. Che lezioni può trarre il mondo dall’esperienza svizzera con la democrazia diretta?

Y.L.: Per molti aspetti, la Svizzera è un paese modello e un esempio da ammirare in tutte le parti del mondo. Per esempio, qui a Berna abbiamo studiato il modo in cui la politica rende conto del proprio operato e come questo processo è organizzato a livello federale, cantonale e comunale.

In molti paesi, la democrazia si basa su elezioni che si tengono ogni 4-5 anni, ma non ci sono procedure stabilite per rendere conto del proprio operato tra una votazione e l’altra. L’approccio svizzero, con il frequente ricorso a votazioni popolari e l’idea che il potere si esercita prima di tutto a livello locale, è una fonte d’ispirazione.

Ma, di nuovo, non si può copiare integralmente il modello svizzero. Bisogna trarne delle lezioni e cercare, a partire dal contesto concreto di un altro paese, di riprendere qualche idea e di cercare di adattarla ai bisogni del paese in questione.

swissinfo.ch: Le prospettive attuali in materia di allargamento e miglioramento della democrazia sembrano perlomeno ambivalenti. Dove vede oggi gli sviluppi più promettenti?

Y.L.: Ci sono democrazie tradizionali dove si riscontrano dei problemi. In certi paesi per esempio il tasso di partecipazione alle elezioni europee non ha superato il 20% e questo rappresenta un problema di legittimità per le istituzioni interessate. I problemi della democrazia o della prassi democratica non sono appannaggio dei paesi in via di sviluppo.

Il segno più positivo che si percepisce oggi è però che la domanda di democrazia non è mai stata così forte. Più che mai i cittadini chiedono di avere un impatto sulle decisioni prese; è un elemento positivo. Tuttavia, il modo di instaurare la democrazia in modo duratura è una sfida.

swissinfo.ch: Il suo paese è esposto a una minaccia terroristica acuta. Come vivono i suoi concittadini questa situazione d’emergenza, caratterizzata da una limitazione dei diritti fondamentali?

Y.L.: C’è stata e c’è ancora molta comprensione per il fatto che sia necessario ricorrere a mezzi straordinari per lottare contro un terrorismo anch’esso eccezionale in termini di brutalità e crudeltà. D’altra parte, con qualche giorno di distanza, ci si rende conto ciò che bisogna ricorrere agli strumenti che già esistono per lottare contro la criminalità e che la fonte di molti problemi risiede anche nel fatto che si sono marginalizzate parti del territorio e che alcune zone urbane non sono state sufficientemente monitorate dalle autorità di polizia e da quelle politiche. Bisogna recuperare terreno.

In termini generali, c’è una grande comprensione in seno alla popolazione, ma d’altra parte ci si rende conto che ci si è spinti troppo lontano con quella che si chiama una certa tolleranza, c’è stato un certo lassismo di cui ora subiamo le conseguenze.

swissinfo.ch: Pensa che i terroristi dello Stato islamico costituiscano una minaccia duratura per i diritti fondamentali e le libertà dei cittadini dell’Europa occidentale?

Y.L.: Credo che la globalizzazione e la facilità di movimento – per esempio grazie alla diminuzione dei controlli di frontiera nello spazio di Schengen – abbiano molti effetti positivi per le persone che vogliono fare cose buone. Tutto ciò facilità i commerci, i viaggi, gli scambi. Ma facilità anche l’insorgere di meccanismi talvolta criminali.

Bisogna dunque soprattutto preservare da una parte i diritti e le libertà per le persone che hanno buone intenzioni – e quindi cercare di conservare questa mobilità – ma d’altra parte occorre anche rafforzare i controlli per eliminare per quanto possibile i rischi di azioni criminose.

Da tempo ci sono per esempio negoziati con gli Stati Uniti e in seno all’Unione europea sull’utilizzo di un sistema di scambio di dati sui passeggeri dei voli aerei. Lo scambio di queste informazioni potrebbe essere organizzato meglio. È un buon esempio di ambiti in cui nei prossimi mesi si potrebbero avere dei progressi e arrivare ad accordi che permettano di sfruttare meglio possibilità tecniche che già esistono. È un esempio di come si possa creare maggiore sicurezza senza mettere in pericolo la mobilità a cui ci siamo abituati negli ultimi decenni.

Traduzione di Andrea Tognina

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