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Il dilemma di chi si sente dire: voglio morire

Nonostante una legislazione piuttosto liberale, anche in Svizzera l'eutanasia rimane ancora oggi un tabù Keystone

Con le sue raccomandazioni in merito all'assistenza al suicido, la commissione nazionale d'etica (CNE) ha riaperto il dibattito su un tema controverso.

Più liberale in materia di altri paesi, la Svizzera avrebbe tuttavia bisogno di regolamentare meglio la materia. Swissinfo ne ha parlato con Christiane Augsburger, membro della CNE.

Attualmente la legislazione svizzera, una delle più liberali in Europa, pur non ammettendo l’eutanasia attiva (omicidio su richiesta della vittima), lascia aperta la possibilità dell’assistenza al suicidio.

Chi aiuta una persona intenzionata a suicidarsi, a compiere questo passo – procurandole ad esempio dei medicamenti – non è punibile se non è mossa da motivi egoistici. Proprio per la mancanza di un movente, l’attività di associazioni come Exit e Dignitas non incorre in sanzioni legali.

Recentemente, la commissione nazionale d’etica per la medicina (CNE) ha pubblicato una serie di raccomandazioni che hanno riaperto il dibattito. Christiane Augsburger, direttrice dell’Alta scuola della salute La Source a Losanna e membro del gruppo di lavoro «assistenza al suicidio» della CNE ne ha parlato con swissinfo.

swissinfo: Perché avete avvertito il bisogno di tornare ad occuparvi di assistenza al suicidio?

Christiane Augsburger: Per noi era un problema prioritario, un problema che interessa gli ospedali e altre istituzioni, come le case per anziani. Volevamo formulare delle raccomandazioni che potessero essere applicate in questo ambito.

L’articolo 115 del codice penale ha dato la possibilità ad organizzazioni private, come Exit, di proporre i loro servizi alle persone che desiderano porre fine ai loro giorni a causa di malattie o sofferenze intollerabili.

Per i professionisti del settore sanitario le cose sono più complicate. Il loro mandato è quello di mantenere in vita le persone il più a lungo possibile. Diversi ospedali escludono la possibilità dell’assistenza al suicidio.

Se per esempio una persona anziana in condizioni disperate desidera mettere fine ai suoi giorni e non ha più un domicilio proprio, dovrà lasciare l’istituto dove vive e il personale curante che conosce, per andare a morire in un albergo, assistita da organizzazioni private, da persone con le quali non ha rapporti.

swissinfo: È per questo che proponete agli ospedali e ad altre strutture d’accoglienza di essere più aperti nei confronti dell’assistenza al suicidio?

C.A.: Naturalmente insistiamo sul fatto che non si può obbligare il personale curante ad assistere una persona che ha scelto di suicidarsi.

Ma raccomandiamo agli istituti di accoglienza di lasciare aperta questa opportunità o, per lo meno, di comunicare chiaramente se il suicidio assistito è o non è ammesso al loro interno.

Credo che per chi ha scelto di morire sia meglio essere accompagnato da persone care o dal personale curante. A livello pratico questo contribuisce ad accertare che la decisione del suicida non sia avventata, ma sia il frutto di una riflessione personale e ponderata.

swissinfo: In definitiva, voi proponete un cambio di paradigma, quello che prima veniva fatto dalle organizzazioni private, ora deve essere possibile anche all’interno di istituzioni pubbliche. Chiedete inoltre che lo Stato eserciti un maggior controllo.

C.A.: Apportando delle modifiche alla legislazione potremmo evitare che ad una persona che ha preso la sua decisione avventatamente venga portata una pozione letale da qualcuno che la posa sul tavolo e poi se ne va. Queste non sono le condizioni ideali per l’assistenza al suicidio.

In molti casi, Exit e le altre organizzazioni private hanno offerto un buon servizio. Ma ci sono delle situazioni in cui forse hanno forse agito troppo in fretta. Con le nostre raccomandazioni vogliamo mettere dei paletti, obbligarle ad agire entro limiti precisi, stabiliti dalla legge.

Vogliamo ad esempio che ogni persona venga considerata come un caso a sé stante, che ogni decisione sia il frutto di una riflessione etica approfondita. Non si possono stabilire procedure standard né permettere che l’assistenza al suicidio diventi una routine.

swissinfo: L’atteggiamento liberale della Svizzera ha portato anche un cosiddetto turismo della morte. Che influsso ha questo sull’immagine internazionale del nostro paese?

C.A.: Ci sono delle leggi, ci sono i pareri della commissione d’etica e se le cose vengono fatte con discernimento non credo che questo possa nuocere all’immagine della Svizzera.

Si tratta di aprire gli occhi su una realtà che esiste. Ci sono effettivamente persone che vengono dall’estero per affidarsi alle associazioni di assistenza al suicidio. Accettare che scelgano di morire in Svizzera significa riconoscere loro il diritto di decidere cosa fare della propria vita.

Ma questo non vuol dire spingere le persone a scegliere di morire. Certe reazioni – un abate ha detto che le nostre conclusioni sono scandalose, che autorizziamo a dare la morte – sono riduttive. Abbiamo lavorato e discusso per due anni, le nostre conclusioni sono ricche di sfumature.

Ci sono molte persone convinte che non si debba mai, in nessun caso, accondiscendere al desiderio di morire di una persona. Uno degli obiettivi del nostro lavoro è quello di contribuire a far avanzare la discussione in seno all’opinione pubblica. Non parlarne non risolve il problema e parlarne non significa invitare le persone a togliersi la vita.

swissinfo: Parlare della morte, della scelta di morire, non è mai facile…

C.A.: No, non lo è, soprattutto perché si tende a parlarne in modo astratto. La nostra società ha un rapporto difficile con la morte, forse per il fatto che si muore sempre più spesso all’ospedale. Io spero che in futuro la morte non sia più un tabù, soprattutto con i bambini. È un’esperienza dolorosa ma è parte integrante della vita.

swissinfo, intervista Doris Lucini

389 persone si sono rivolte ad Exit tra il 1997 e il 2000 (1990-1993: 110).
137 persone nel 2002, pari al 10% dei suicidi totali del paese.
91 persone straniere si sono rivolte a Dignitas nel 2003 (2000: 3)
L’articolo 115 del codice penale svizzero decreta che l’assistenza al suicidio non è reato se chi aiuta una persona a suicidarsi non ha un movente egoistico.

La commissione nazionale d’etica (CNE) propone di lasciare immutato l’articolo 115 del codice penale, ma di disciplinare meglio l’assistenza al suicidio in altri ambiti.

Si tratta di stabilire chiaramente che è una misura estrema, accettabile solo quando si è di fronte ad una decisione ben ponderata e non quando la volontà di morire è frutto di una crisi passeggera e superabile.

Le raccomandazioni della CNE (sì all’AS nelle case di cura, sì all’AS per gli stranieri, no per chi soffre di malattie psichiche, maggiore controllo statale) sono condivise, in linea di massima, dalla Federazione dei medici svizzeri e da Exit.

Il Dipartimento federale di giustizia e polizia dovrebbe occuparsi di eutanasia e assistenza al suicidio nel prossimo autunno.

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