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In prima linea per difendere i diritti umani

Navi Pillay, alta commissaria dell'ONU per i diritti dell'essere umano Rodrigo Carrizo Couto

Mercoledì 10 dicembre 2008 la Dichiarazione universale dei diritti umani compie 60 anni. Un'occasione per conoscere l'alta commissaria dell'ONU per i diritti umani Navi Pillay, i suoi compiti e i suoi progetti. Intervista.

La giudice sudafricana è una persona calorosa e affabile. Il giorno dell’intervista è di buon umore anche se manifesta grande preoccupazione quando traccia il bilancio della situazione dei diritti umani nel complesso mondo di oggi.

swissinfo: In che cosa consiste il suo lavoro? Come spiegarlo a chi non conosce i meccanismi dell’Alto commissariato ONU per i diritti umani?

Navi Pillay: L’ONU voleva una persona che facesse sentire la sua voce a livello internazionale e che fosse ascoltata dai governi. Così, nel 1993, l’ Assemblea generale dell’ONU ha creato questa figura. In questo ruolo io rappresento le vittime di tutto il mondo. Il mio lavoro consiste nell’assicurarmi che i diritti delle persone non vengano calpestati e che le vittime ricevano un’adeguata protezione.

swissinfo: Quali sono i requisiti per svolgere questo compito?

N. P.: Occorre essere indipendenti e non aver paura di confrontarsi con coloro che violano i diritti umani, che in gran parte sono gli Stati. Il mio ruolo è prima di tutto quello di denunciare, senza timore, le violazioni dei diritti; successivamente devo formulare delle raccomandazioni sulle iniziative da intraprendere.

Grazie al suo statuto di indipendenza, l’Alto commissariato per i diritti umani deve rendere conto direttamente solo all’Assemblea generale dell’ONU e al segretario generale.

swissinfo: Quali sono i suoi obiettivi?

N. P.: Le sfide sono molto numerose. Ma quello che più conta è che la comunità internazionale tenga finalmente in seria considerazione i diritti umani. Ritengo inoltre che una delle grandi sfide è aiutare le organizzazioni non governative (ONG) e la società civile ad essere più forti e risolute quando si tratta di sfidare i governi.

swissinfo: Gli Stati garantiscono un sufficiente sostegno finanziario?

N. P.: Vede, noi ci muoviamo sulla base di un regolare preventivo, ma dipendiamo moltissimo dalle donazioni degli Stati membri. La verità è che alcuni Stati sono più generosi di altri o possono permettersi di dare più soldi di altri. Ciò che conta è il principio, in base al quale manifestano la volontà di aiutarci e di sostenere la nostra lotta. Se non ci fossero le donazioni, non potremmo garantire il nostro lavoro sul terreno.

swissinfo: Spesso la gente si sorprende di vedere nel Consiglio dei diritti umani, paesi che non brillano propriamente per il rispetto dei diritti…

N. P.: Mi permetta di ricordarle che questo mercoledì, 10 dicembre 2008, celebriamo i sessant’anni della Dichiarazione universale dei diritti umani. Una dichiarazione che contempla tutti i diritti – civili, politici, economici, sociali e culturali – ai quali gli esseri umani dovrebbero avere accesso. Ogni persona ha il diritto di vivere in pace e di essere trattata con dignità. Ogni persona ha diritto all’acqua potabile, al cibo; ogni persona deve poter avere i mezzi per vivere.

Qual è allora il problema? Forse che gli Stati non vogliono assumersi la responsabilità di trasformare in realtà questi principi retorici, ai quali hanno aderito?

Ma ora possiamo fare affidamento sul Consiglio dei diritti umani, un organo nuovo all’interno del quale gli Stati membri accettano di sottoporsi ad un esame per quanto attiene la politica dei diritti umani. Gli Stati si sorvegliano l’un l’altro, ma affinché questo confronto sia praticabile, non deve costituire un giudizio.

swissinfo: Sta facendo allusione alla revisione periodica universale (RPU)?

N. P.: Si, e proprio perché è universale e periodica, non emette sentenze sugli Stati. In meno di sei mesi sono stati analizzati 32 paesi: non è poco, anzi. Lo scopo della RPU non è quello di attaccare un paese in particolare, ma di aiutarlo a promuovere i diritti umani attraverso una serie di raccomandazioni. Il mio ufficio si sta attualmente occupando di garantire la necessaria collaborazione e competenza per raggiungere questi obiettivi.

È importante, per esempio, assicurare lo sviluppo della società civile, preparare le forze di polizia, vietare l’uso della tortura. Ma è altrettanto importante aiutare le ONG, che in molti paesi sono fragili, affinché siano consapevoli dei loro diritti e siano in grado di fare sentire la loro voce nel Consiglio de diritti umani.

Vorrei comunque che non si dimenticasse mai che questo organismo è nuovo. Ha soltanto due anni e bisogna accordargli un’opportunità. Si basa inoltre su un nuovo concetto e su una nuova visione. Ci sono comunque ancora troppi paesi che non accettano lo sguardo degli altri sul modo in cui traducono in pratica gli impegni presi nel campo dei diritti umani. E che non accettano alcuno critica da parte della società civile e delle popolazioni.

swissinfo: Molti osservatori mettono in evidenza che alcuni stati vedono la RPU come una sorta di “ingerenza imperialista” e occidentale. E, quindi, non sono molto cooperativi. Come è possibile progredire in tali condizioni?

N. P.: È vero, siamo confrontati anche con questa realtà. Molti paesi, e non diremo quali, sono enormemente ostili a qualsiasi forma di analisi trasparente sul rispetto dei diritti umani. E allora? Che facciamo? Incrociamo le braccia e stiamo a guardare?

Oppure sosteniamo un organismo internazionale in cui tutti, compresi i paesi ostili, devono sottoporsi alla RPU? Mi creda, questa è la migliore misura che abbiamo per osservare quei paesi. Ma si ricordi anche che tutti i 192 Stati membri saranno sottoposti a questa revisione.

swissinfo: Cosa ricorda dell’esperienza come giudice del Tribunale penale internazionale per il Ruanda l’aiuta?

N. P.: In Ruanda sono stati commessi crimini efferati contro l’umanità e i diritti umani; generalmente i responsabili di quegli eccidi erano anche capi politici e militari. Molti di loro sono fuggiti, trovando rifugio in angoli lussuosi e senza dove rispondere delle proprie colpe.

Molti dicono che il Tribunale penale internazionale (TPI) è molto lento; prima, però, non c’era niente. Credo che il TPI abbia una funzione dissuasiva: le persone oggi al potere che si macchiano di crimini e di violazioni dei diritti umani sanno che l’impunità non esiste.

swissinfo: Lei non esitò ad affermare che lo stupro è un crimine contro l’umanità…

N. P.: Certo, è proprio così. Gli stupri e gli abusi sessuali erano molto diffusi ed erano sistematicamente utilizzati come arma di guerra contro un gruppo particolare. Si praticavano con la manifesta intenzione di distruggere un’etnia ed erano parte di un genocidio. Questo precedente giuridico che definisce lo stupro un crimine contro l’umanità è stato successivamente applicato nei processi riguardanti la guerra nella ex Jugoslavia.

swissinfo: Carla Del Ponte, ex procuratrice del TPI per la ex Jugoslavia; Louise Arbour, la magistrata che l’ha preceduta in questo incarico; e poi c’è lei: si sente parte di una dinastia di donne straordinarie?

N. P.: No. Credo che donne e uomini possano avere le necessarie qualità e le motivazioni per esercitare una determinata funzione. È pur vero che le donne sono state storicamente le grandi escluse e che il 50% dell’umanità non ha preso parte a decisioni importanti. E ancora oggi il fatto che una donna diriga questo organismo, è una notizia (risate)!

Intervista swissinfo, Rodrigo Carrizo Couto, Ginevra
(traduzione e adattamento dallo spagnolo Françoise Gehring)

Navanethem (Navi) Pillay è nata a Durban, in Sudafrica, nel 1941. Proviene da una famiglia modesta di origine indiana. Studia grazie al sostegno economico della comunità, a cui è estremamente riconoscente.

Dopo essersi diplomata in giurisprudenza e dopo avere ottenuto il brevetto di avvocata, si è occupata dei detenuti politici nell’epoca dell’apartheid.

Si è in particolare battuta per il miglioramento delle condizioni di detenzione nel carcere di Roben Island, dove era prigioniero Nelson Mandela.

Nel 1967 è stata la prima donna ad aprire un studio legale nella provincia dello KwaZulu-Natal, in Sudafrica. Nel suo paese è stata anche la prima donna di colore a far parte della Corte suprema.

Nel Tribunale penale internazionale dell’Aja è stata giudice per il Ruanda e ha giocato un ruolo chiave nel definire gli stupri etnici come delle armi di guerra.

Navi Pillay prende il posto della canadese Louise Arbour, 61 anni, che è riuscita a rafforzare l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i diritti umani durante il suo mandato.

La Dichiarazione universale dei diritti umani è stata firmata a Parigi il 10 dicembre 1948. Il documento – figlio dell’indignazione per le atrocità commesse nella seconda guerra mondiale – è un codice etico di importanza storica fondamentale: è stato infatti il primo a sancire universalmente (cioè in ogni epoca storica e in ogni parte del mondo) i diritti che spettano all’essere umano.

La Dichiarazione universale è composta da un preambolo e da 30 articoli che sanciscono i diritti individuali, civili, politici, economici, sociali, culturali di ogni persona. I diritti dell’essere umano vanno quindi suddivisi in due grandi aree: i diritti civili e politici e i diritti economici, sociali e culturali.

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