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L’economia, più importante dei diritti umani

Il responsabile della ricerca Georg Kreis presenta il rapporto di sintesi Keystone

Nelle sue relazioni col Sudafrica dell'apartheid le autorità elvetiche hanno dato la precedenza agli interessi economici a scapito dei diritti umani.

È una delle principali conclusioni a cui è giunto un programma nazionale di ricerca svizzero i cui risultati sono stati presentati giovedì a Berna. Il Governo non ha voluto prendere posizione.

Le relazioni tra la Svizzera e le autorità segregazioniste sudafricane sono state «un capitolo buio nella storia recente» del paese. È quanto viene sottolineato nel rapporto di sintesi presentato giovedì degli studi sui rapporti tra i due Stati durante il regime dell’apartheid.

I contatti sono stati particolarmente intensi negli anni ’80, al culmine dell’apartheid, in particolare nei settori militare e nucleare.

Una decina di studi

Lanciato nel 2000, il programma di ricerca è durato quattro anni ed ha impegnato quaranta persone.

Oltre al rapporto di sintesi finale redatto dal responsabile del progetto, lo storico basilese Georg Kreis, sono stati effettuati una decina di studi.

Tra le ricerche presentate giovedì vi sono quelle di Peter Hug, che si è concentrato sulle esportazioni di armi e tecnologia nucleare tra i due Stati, e di Jörg Künzi sullo spazio di manovra giuridico della Confederazione nei confronti del regime sudafricano.

Una politica contradditoria…

In generale, ha dichiarato Kreis, la politica elvetica nei confronti del Sudafrica è stata caratterizzata da una contraddizione: condanna dell’apartheid, ma rifiuto di agire.

Per quanto attiene alle relazioni economiche, nonostante l’embargo sulle armi deciso dall’ONU nel 1963 e al quale Berna si associò, la Confederazione chiuse più di una volta gli occhi sulle vendite illegali di armi da parte di società elvetiche.

Benché il Consiglio federale abbia impedito nell’aprile del 2003 l’accesso a determinate fonti per non sfavorire alcune aziende elvetiche impegnate in una causa collettiva negli Stati Uniti, i ricercatori hanno potuto svelare i retroscena di numerose vendite illegali di armi al Sudafrica – tollerate o addirittura sostenute da Berna – nonché la partecipazione indiretta delle industrie elvetiche alla fabbricazione di bombe atomiche sudafricane.

Questo atteggiamento tollerante rifletteva, secondo Kreis, il profondo anticomunismo delle élite politiche ed economiche di allora che vedevano nel paese africano l’ultimo baluardo contro l’espansionismo sovietico.

…che ha però influito poco sulla longevità del regime

Il rifiuto elvetico di non associarsi alle sanzioni internazionali ha certamente aiutato il regime dell’apartheid. Non si può però affermare che la Svizzera abbia contribuito a mantenerlo in vita.

«Scientificamente è impossibile dare un giudizio definitivo», ha dichiarato a swissinfo Georg Kreis. «Una cosa è però appurata: rispetto alla sua taglia, la Svizzera ha però un ruolo disproporzionato nel finanziamento del regime».

La Svizzera prese però anche dei provvedimenti positivi: nel 1986, pur non associandosi alle sanzioni economiche, Berna decise di sostenere le condizioni di vita della popolazione locale e stabilire relazioni con gli attivisti locali antiaparthied.

Nel periodo 1986-1994, le autorità svizzere spesero 50 milioni di franchi per programmi di sostegno.

Anche se si trattava per la Confederazione di ridare lustro alla sua immagine – dopotutto Berna era isolata nel suo sostegno economico al regime – una simile iniziativa ha avuto per Kreis un’importanza capitale.

Reazioni contrastate

Le reazioni al rapporto sono state molto diverse a seconda dell’appartenenza politica. La sinistra ha criticato la politica d’informazione del Governo dell’epoca.

«Il rapporto finale mostra che il Consiglio federale ha mentito su diversi punti», ha dichiarato la deputata ecologista Pia Hollenstein, copresidente del gruppo di lavoro parlamentare Svizzera-Sudafrica. La sinistra chiede che le ricerche continuino e che in Parlamento venga organizzato un dibattito sui risultati dello studio.

Da parte sua, l’ex consigliera nazionale del Partito liberale radicale Geneviève Aubry ha definito lo studio «una minestra riscaldata». Ex osservatrice dell’ONU in Sudafrica, Geneviève Aubry ha ricordato che la Svizzera non è stato l’unico paese ad aver intrattenuto dei legami con il regime dell’apartheid. Ma una volta ancora, la sinistra ha approfittato dell’occasione per criticare l’economia e per riesumare un capitolo della storia chiuso da molto tempo.

Il Governo dal canto suo non ha voluto prendere posizione sulle conclusioni. Il Consiglio federale rende omaggio però al rapporto parlando di «un contributo importante per una comprensione più approfondita delle relazioni storiche» tra i due paesi.

swissinfo e agenzie

In Sudafrica i primi elementi di segregazione razziale vennero introdotti in occasione delle elezioni del 1924.
Nel 1948 l’apartheid prese definitivamente forma e negli anni seguenti furono introdotte una serie di leggi che proibivano, tra le altre cose, i matrimoni interazziali, l’uso a persone di razze diverse di determinate infrastrutture pubbliche o che rendevano difficile l’accesso all’istruzione per persone di colore.
Nel 1956, la politica di apartheid fu estesa a tutti i cittadini non bianchi, compresi gli asiatici.
Di fronte a una contestazione interna sempre più massiccia e a forti pressioni internazionali, la segregazione razziale è stata abolita nel 1991 dal governo di Frederik de Klerk.

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