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L’Egitto deve ancora dare un senso alla parola democrazia

Dopo 30 anni di regime di Hosni Mubarak, gli egiziani chiedono un cambiamento a livello politico ed economico Reuters

Dopo la Tunisia, anche in Egitto le proteste popolari stanno facendo vacillare il regime. Questi avvenimenti, che potrebbero estendersi ad altri paesi, devono spingere l'Occidente a modificare la sua politica verso il mondo islamico. È quanto sostiene Yves Besson, specialista dei paesi mussulmani.

Pochi giorni dopo la forzata partenza del capo di Stato tunisino Ben Ali, anche il presidente egiziano Hosni Mubarak si vede ora confrontato a movimenti di protesta popolare che rischiano di mettere fine al suo regime autocratico.

Martedì centinaia di migliaia di persone sono scese nelle strade del Cairo per chiedere le dimissioni del governo in carica e dello stesso Mubarak, al potere dal 1981. Sull’ondata di malcontento che ha investito i paesi mussulmani nordafricani, vi proponiamo le valutazioni di Yves Besson, specialista del mondo islamico.

swissinfo.ch: Come definirebbe ciò che sta accadendo nei paesi mussulmani del Nordafrica?

Yves Besson: È una situazione piuttosto anomala. A capo del movimento popolare sembra non ci sia un vero leader, né qualcuno che riesca ad imporsi come tale.

Per la prima volta le manifestazioni sono il risultato di un’esasperazione popolare. In Egitto c’erano già stati diversi sussulti. L’anno scorso, dopo le elezioni, alcuni movimenti avrebbero potuto allarmare. Ma adesso siamo di fronte a una mobilitazione di massa. E mentre avrebbe potuto spegnersi fin dal principio, ha preso forma e si è ingrandita.

Questa protesta è il risultato della disoccupazione, di una popolazione per lo più giovane che si angoscia per il proprio avvenire. Tutto si è sviluppato in modo molto spontaneo, ma il problema con questo tipo di rivoluzioni è che possono essere sfruttate da qualcun altro. In Tunisia, le cose non sembrano andare troppo male, ma in Egitto non si sa.

swissinfo.ch: C’è qualche segno di una possibile strumentalizzazione della protesta?

Y.B.: È troppo presto per dirlo. Siamo ancora allo stadio delle manifestazioni popolari. Il fatto che Hosni Mubarak abbia nominato un vice-presidente mostra che si sta preparando a un’eventuale partenza.

Al suo fianco ora c’è Omar Souleiman, capo dei servizi segreti e uomo chiave nei negoziati con Israele e gli Stati Uniti. Potrebbe essere lui a guidare il paese nella fase di transizione verso le elezioni, che teoricamente potrebbero essere molto più libere di quelle svoltesi finora in Egitto.

Ma bisogna vedere in che modo reagirà l’esercito. Vi sono diverse generazioni di ufficiali. Si ricorderanno del colpo di Stato dei colonnelli nel 1952 che aveva condotto alla prima rivoluzione egiziana, con l’eliminazione della monarchia e poi del generale Naguib a capo del paese?

Tutto questo fa  ormai parte di una storia antica per la gioventù egiziana. I giovani d’oggi sembrano essere guidati da ideali democratici. È incoraggiante, ma bisogna ancora dare un senso al termine “democrazia”.

swissinfo.ch: La rivoluzione tunisina ha avuto soprattutto un impatto nazionale. Quanto sta succedendo invece in Egitto potrebbe avere ricadute per tutta la regione?

Y.B: Per quanto riguarda il mondo arabo, questo genere di proteste potrebbe estendersi alla Giordania. Ma credo che, se fosse il caso, la monarchia giordana riceverebbe l’appoggio dell’Arabia saudita per mantenere l’ordine all’interno del paese.

Sul piano regionale è interessante notare il silenzio della Siria. La situazione per le strade è calma e il governo non si muove. In Siria vi sono movimenti di tendenza islamica. Ma si tratta di un islamismo che definirei di “vecchia scuola”: risale ad una ventina di anni fa e non è molto di attualità. La nuova generazione, quella che ha oggi una ventina o una trentina d’anni, sembra piuttosto tentata dall’esempio della Turchia.

Rimane il problema yemenita. Non credo però che le manifestazioni in corso a Sanaa siano indicative di un movimento di fondo. Sanaa non rappresenta il paese intero, il quale rimane molto diviso dalle differenze tribali.

Vi è infine la questione del futuro dell’Iraq, la quale si trova ancora sospesa in aria. Finora, la situazione in Medio Oriente appariva come un gioco di destrezza compiuto con tre palline. Una era sistematicamente sospesa in aria, ma si riusciva in qualche modo a mantenere un certo equilibrio. Ora bisognerà destreggiarsi con un numero maggiore di palline e ve ne saranno più in aria che non nelle mani. Sto pensando in particolare alle mani degli Stati uniti.

swissinfo.ch: Da un profilo personale, come considera questa aspirazione di democratizzazione espressa dalle proteste popolari nella regione?

Y.B.: È fantastico. E estremamente incoraggiante. Questi avvenimenti sembrano voler colmare il fossato tra le possibilità di una democratizzazione all’Occidentale e il rispetto di un certo numero di norme sociali tipiche del mondo arabo-musulmano o musulmano. L’osmosi potrebbe avvenire seguendo il modello turco.

Gli Stati uniti, con il sostegno dei paesi europei, soprattutto la Gran Bretagna, hanno cercato nell’ultimo decennio di imporre la democratizzazione con la forza. Questa politica è completamente fallita. È fallita in Iraq e sta fallendo in Afghanistan. Ora si sta aprendo un arco, tra l’Afghanistan e il Mediterraneo, in cui gli occidentali dovranno rivedere completamente il loro approccio.

Secondo me, si è aperto inoltre un campo d’azione per la diplomazia turca. L’economia di questo paese sta andando piuttosto bene. La riconciliazione con la Siria offre indubbiamente nuove opportunità ad Ankara nella regione. Tanto più che Israele ha commesso l’errore di litigare con la Turchia.

Per contrastare la rivolta popolare, il 28 gennaio il governo egiziano ha interrotto tutte le connessioni Internet e ha silenziato i telefoni cellulari.

È la prima volta nella storia che un paese decide un blocco totale di questo tipo.

La cybercensura è però stata bucata il 1° febbraio, grazie a un’alleanza tra Google e Twitter.

Chiamando uno dei tre numeri messi a disposizione di Google (+16504194196 o +390662207294 o +97316199855), i manifestanti possono registrare un messaggio vocale, che verrà poi messo in rete su Twitter.

17 gennaio: scocca la prima scintilla della rivolta. Al Cairo un uomo si dà fuoco, sulla scia di quanto accaduto in Tunisia e il movimento d’opposizione 6 aprile indice la giornata della collera.

25 gennaio: “giornata della collera”. Migliaia di manifestanti scendono in piazza al Cairo, a Suez e Alessandria per chiedere la fine del regime e condizioni di vita migliori. Le proteste degenerano in violenti scontri. Quattro i morti.

27 gennaio: la rivolta dilaga in tutto l’Egitto. Rientra in patria l’ex direttore generale dell’Agenzia internazionale dell’energia atomica e premio Nobel per la pace, Mohammed el Baradei, leader di uno dei movimenti di opposizione.

28 gennaio: seconda “giornata della collera” per il venerdì di preghiera: cortei anti-Mubarak. Al Cairo i manifestanti appiccano il fuoco al quartier generale del partito governativo, danno l’assalto ad alcuni ministeri, e alla sede della tv di Stato. A Suez gli insorti si impadroniscono del governatorato.

Il presidente Hosni Mubarak chiede l’intervento dell’esercito e proclama il coprifuoco dalle 18.00 alle 7.00 del mattino.

29 gennaio: la protesta non si ferma, mentre è varato un nuovo governo. Mubarak nomina come vice Omar Suleiman, potentissimo fedele capo dei servizi segreti. La manovra scontenta i manifestanti e tutta l’opposizione.

30 gennaio: per il terzo giorno consecutivo i manifestanti sfidano il coprifuoco. In piazza Tahrir al Cairo, diventata simbolo della protesta, si presenta Mohamed El Baradei, che annuncia di aver ricevuto il mandato dalle opposizioni di avviare un governo di salute pubblica. Con i manifestanti ci sono anche religiosi di Al Azhar, centro sunnita prestigioso e soprattutto molto vicino al governo.

31 gennaio: centinaia di migliaia di dimostranti sono scesi in piazza per chiedere le dimissioni del presidente Hosni Mubarak.

Traduzione dal francese

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