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L’immagine dell’identità

Un'immagine di "Bashkim", testimonianza premiata di un'integrazione difficile. www.solothurnerfilmtage.ch

Le giornate cinematografiche di Soletta offrono ampio spazio alla documentaristica. Un genere che piace ai cineasti indigeni. Esempi di introspezione filmata.

La produzione svizzera è fedele al genere documentario: oltre la metà dei 250 film proiettati alle Giornate cinematografiche svizzere di Soletta del 2002 non è riconducibile alla tradizionale fiction. La celluloide, nel ristretto mercato elvetico, non si impressiona dunque per le grandi storie fantastiche; preferisce la realtà.

Da una parte, è stato ripetuto da più voci fra una proiezione e l’altra, è il mercato svizzero ad imporre questa scelta. La mancanza dei mezzi richiesti dalla produzione professionale di film, la difficoltà di accalappiare un pubblico abbastanza vasto e poi la televisione… È infatti il piccolo schermo a fagocitare e dunque a rendere possibile una grossa fetta di produzione interna di immagini. I suoi formati impongono dunque delle scelte.

Ma non è solo questo: il documentario permette una grande libertà espressiva, che si dimostra a Soletta in tutta la sua diversità. Testimonianze corali, individuali, scoperta di luoghi, di fatti, di idee: il documentario offre spazio a tutti. E i cineasti svizzeri sembrano gustare le possibilità e la duttilità della documentazione che può avere qualità tecniche da film, come può semplicemente nascere da una piccola telecamera nascosta nella tasca dell’autore.

Non è dunque un caso se il premio per il documentario, attribuito per la quinta volta quest’anno, sia ambìto come, se non più, degli altri premi per la migliore interpretazione o per la fiction più convincente.

Realtà difficili

Il premio quest’anno è andato a “Bashkim”, un contributo di Vadim Jendreyko su un giovane albanese, profugo in Svizzera. Il susseguirsi di tumulti emozionali del giovane, sradicato dalla sua terra e coinvolto in una spirale di violenza, non trova risposte nel film. L’autore non propone ricette alle difficoltà di integrazione. Segue, senza commento, il cadere continuo di Bashkim nelle aggressioni che lo portano a problemi con la giustizia, le sue difficoltà con la scuola e con le istituzioni e la sua rivincita nello sport, dove il giovane raccoglie successi nella box.

Un’esperienza di tutt’altra natura è quella di Nico Gutmann. Con “Viaje en taxi”, l’autore documenta la sua stessa vita. Il film parte dalla Svizzera, paese dove è stato adottato da una famiglia trent’anni fa e lo porta a conoscere la madre in Cile. Un documento toccante che nella sua riflessività d’autore, trasporta le emozioni irripetibili della ricerca di sé stessi.

Prospettiva femminile

Divertito, ma sapientemente concepito è il contributo di Gabriele Schärer, intitolato “Sottosopra”. Inseguendo quattro donne di diverse generazioni, l’autrice bernese con un’esperienza nell’insegnamento delle arti audiovisive ad Amburgo, documenta la lotta degli ultimi decenni per la parità fra uomo e donna. Sotto il motto “il patriarcato è morto” insegue le esperienze di donne che hanno mobilitato, irritato e coinvolto altre donne.

Solitario invece si presenta il ritratto di due donne, Christina e Silvia, che passano per scelta le loro estati nella solitudine degli alpeggi grigionesi. Un lavoro duro con le mandrie di mucche e le greggi di pecore, quello illustrato da Flavia Caviezel in “Sur cunfins – dunnas ad alp”, sullo sfondo di un paesaggio alpino mozzafiato, opposto alla realtà cittadina da cui le due donne evadono coscientemente.

Più patinato invece il ritratto di quella che forse è l’unica diva del cinema elvetico, Anne Marie Blanc. Anne Cuneo lascia spazio ai ricordi tratti dall’album di una vita di successo senza pari nella storia del cinema elvetico. Un affresco che con la Blanc – partita come “la petite Gilberte”, la locandiera più amata dai soldati e dal pubblico degli anni Quaranta – ripercorre le tappe salienti di una storia personale che è anche la storia del cinema e del teatro elvetici.

Impressioni di provincia

Con “Giuventetgna dultsch utschi – Born in the Surselva”, Christian Schocher insegue sei giovani romanci della Surselva. Ponendo a tutti le stesse domande sulla vita e la visione del futuro, costruisce un dialogo a distanza fra i testimoni inconsci di un presente di periferia.

Un documentario costruito con criteri drammaturgici che gioca sui ripetuti luoghi comuni proposti dai protagonisti. Con inquadrature crude che abbandonano i cliché classici dell’idillio alpino e senza commento fuori campo, Schocher propone un’immagine controversa della “dolce gioventù” della minoranza linguistica.

Il noi variegato

Soletta dà spazio al documentario e lo fa coscientemente. Al centro più che mai stanno le tematiche svizzere: l’incontro e l’analisi di una diversità che ha come unico denominatore il territorio nazionale, il luogo dove si sviluppano i destini individuali che poi incrociano altri destini o se ne separano. Le cineprese inseguono lotte e ambizioni, vittorie, sconfitte, integrazione e emarginazione.

Una produzione, quella presentata a Soletta, che non cerca la verità, ma che mette in scena situazioni per provocare nel pubblico reazioni e riflessioni. A volte le immagini inebrianti producono un piacere estetico profondo, a volte la spontaneità e la provvisorietà delle inquadrature o dei mezzi tecnici insegue l’idea di autenticità.

In ogni caso il genere conferma la sua duttilità e la sua capacità di assemblare approcci e stimoli diversi, tecniche di ripresa e di montaggio sofisticate o spontanee, testimonianze immediate o di riflessione.

Questa tendenza è confermata anche da Iso Camartin, responsabile cultura di SF DRS. Per l’osservatore, le produzioni del 2001 si distinguono perché “non sono né noiose, né accademiche, ma molto legate ai problemi quotidiani degli svizzeri”.

Il documentario elvetico vive dunque più che mai. Con professionalità e fantasia, con libertà verso la cronaca spicciola e soprattutto con tanta voglia di raccontare delle storie e far vedere al pubblico le emozioni in immagini nuove. Soletta ne è testimone.

Daniele Papacella

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