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La dimensione politica dell’archeologia in Palestina

Alcuni dei tesori archeologici ritrovati a Gaza

L'archeologia in Palestina serve da giustificativo ai nazionalisti palestinesi, così come a quelli israeliani. È quanto afferma Pascal de Crousaz, esperto di Medio Oriente.

A Ginevra è stata inaugurata giovedì un’esposizione sulla ricca storia di Gaza, in presenza della presidente della Confederazione Micheline Calmy-Rey e del suo omologo palestinese Mahmoud Abbas.

Il Museo di arte e di storia di Ginevra presenta «Gaza, crocevia di civilizzazioni», un’esposizione che svela le molteplici presenze messe in risalto dagli scavi archeologici nella striscia di Gaza.

La mostra, inaugurata dal presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas, s’iscrive in un progetto patrocinato dall’UNESCO: un museo archeologico di Gaza finanziato dalla società civile palestinese con il sostegno scientifico e tecnico di Ginevra.

Specialista di Medio Oriente, Pascal de Crousaz illustra la dimensione politica di questo evento culturale.

swissinfo: L’esposizione di Ginevra e il museo archeologico di Gaza rappresentano una novità per i palestinesi?

Pascal de Crousaz: Dall’istituzione dell’Autorità palestinese nel 1994, hanno tentato di dare vita ad un’archeologia propriamente palestinese. Ma a mia conoscenza, non ci sono mai state grandi esposizioni internazionali su Gaza.

La presenza di Mahmoud Abbas evidenzia bene la dimensione politica di questo avvenimento culturale. In un momento in cui sono tagliati fuori dal mondo, i palestinesi stanno tentando di trovare un certo sostegno esterno stabilendo un legame con le grandi civilizzazioni del pianeta, ponendosi quali loro eredi in una Gaza aperta al mondo e legandosi simbolicamente a questo mondo attraverso le vestigia archeologiche.

Un sostegno cercato non solo in favore del progetto del museo archeologico di Gaza, ma pure per le aspirazioni nazionali dei palestinesi a Gaza e in Cisgiordania.

swissinfo: Si può affermare che gli israeliani abbiano mostrato la via, dal momento che le loro ricerche archeologiche sono servite ad ancorare storicamente lo Stato ebraico?

P. d. C.: Per gli israeliani, si tratta effettivamente di corroborare la legittimità del discorso sionista, ovvero la colonizzazione di una terra da parte di gente giunta dall’esterno, contro la volontà della maggior parte della popolazione indigena.

Lo scopo di questi scavi era di metter in evidenza i legami storici esclusivi tra il popolo ebraico e la terra di Palestina. L’archeologia è stata mobilitata per affermare che originariamente la Palestina era ebraica, che non lo era più stata per un certo periodo e che coloro che l’avevano popolata durante questo intervallo erano degli estranei.

L’archeologia doveva fondare questo discorso riesumando, come prova di appartenenza al territorio, ogni sinagoga o tomba ebraica antica, in particolare nel Golan e in Cisgiordania.

Gli oggetti non ebraici sono invece stati portati alla luce e presentati come dei testimoni del passaggio di civilizzazioni, le quali, contrariamente al popolo ebraico, non erano radicate nella terra d’Israele. C’è stata una forma di silenzio che è calata sulla storia non ebraica della Palestina, sebbene questa sia stata molto più ricca in termini di oggetti e decisamente più duratura nel tempo.

Questa questione è stata talmente importante che le grandi figure dell’archeologia israeliana non erano altro che il capo di Stato maggiore della guerra d’indipendenza, Igaël Yadin, o il celebre Moshé Dayan (generale e politico israeliano, ndr).

swissinfo: Quale è stata la reazione dei palestinesi?

P. d. C.: Gli arabi in generale e soprattutto i palestinesi si sono sentiti nel dovere di apportare un contro discorso. Una di queste interpretazioni storiche – radicale – ha negato il legame privilegiato tra ebrei e Palestina. È ad esempio ciò che ha fatto un archeologo libanese negli anni Ottanta, quando affermò che la Terra promessa citata nei testi biblici si trovava a nord dell’attuale Arabia saudita.

In un altro tipo di discorso radicale si è invece sostenuto che se l’anteriorità della presenza comporta dei diritti privilegiati, i palestinesi ne beneficerebbero in quanto discendenti dei Filistei, residenti in Palestina prima degli ebrei.

Nel quadro dell’esposizione su Gaza di Ginevra l’aspetto politico è nettamente meno polemico. Si tratta di mostrare il patrimonio non ebraico della Palestina parlando del suo passato filisteo, persiano, greco, romano, bizantino, arabo, mammalucco o ottomano. Una Palestina aperta sul mondo, ricettacolo di grandi civilizzazioni.

Questo tipo di lavoro è stato relativamente facile nel caso di Gaza, siccome non c’è praticamente alcuna traccia della presenza ebraica nell’antichità. Lo stesso si può dire per le città della pianura lungo la costa. La faccenda si complicherebbe invece in Cisgiordania, luogo in cui è difficile sorvolare sulle molteplici impronte della presenza ebraica.

swissinfo: Dimostrando che questa terra è stata teatro di una perpetua mescolanza di popoli, i palestinesi si mostrano forse meno nazionalisti degli israeliani?

P. d. C.: Questo è certamente vero per la corrente che fa capo a Mahmoud Abbas. Alcuni islamici radicali negano al contrario l’importanza delle presenze non mussulmane nella regione, sostenendo che la Palestina è stata tramandata ai mussulmani. Una terra che quindi deve essere riconquistata e ridiventare mussulmana.

Tra i palestinesi non radicali vi sono poi dei nazionalisti che negano ogni centralità o presenza ebraica nella storia della Palestina.

swissinfo, intervista di Frédéric Burnand, Ginevra
(traduzione: Luigi Jorio)

L’esposizione «Gaza, crocevia di civilizzazioni» si svolge dal 27 aprile al 7 ottobre al Museo di arte e storia di Ginevra.

La mostra è accompagnata da una serie di eventi che tracciano il ritratto attuale di Gaza.

Festival cinematografici, esposizioni di artisti, concerti, conferenze e cucina permetteranno di scoprire le diverse sfaccettature della vita a Gaza e nei Territori palestinesi.

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