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La fotografia che fa finta

Chantal Michel, «L'ospite silenzioso», 2006

«Make believe - scatti inscenati» è il titolo delle 12esime Giornate fotografiche di Bienne. Un viaggio alla scoperta della nuova fotografia svizzera, tra elaborazioni digitali, ispirazioni teatrali e approcci narrativi.

Lo scatto inscenato, la “messa in scena fotografica”, è un genere che appartiene alla fotografia fin dai suoi albori. Si potrebbe anzi dire che è il primo genere fotografico, poiché in un’epoca in cui i tempi di esposizione erano molto lunghi, ogni ritratto, ogni foto di gruppo, doveva essere in qualche modo “costruita”.

Oggi, come nota Catherine Kohler, co-direttrice insieme a Hélène Joye-Cagnard delle Giornate di Bienne, lo scatto inscenato «costituisce una gran parte della produzione fotografica, in particolare nella pubblicità» (anche se spesso ce ne scordiamo, condizionati come siamo dal peso che il reportage ha avuto nella storia della fotografia del Novecento).

La messa in scena fotografica ha preso piede anche nelle gallerie d’arte, contribuendo in maniera determinante al successo della fotografia nell’effervescente mercato contemporaneo dell’arte. La fotografia sembra essere diventata uno degli strumenti preferiti dagli artisti per esplorare i confini tra verità e finzione, tra realtà e rappresentazione.

«La fotografia ha scoperto la sua vena narrativa, separandosi – almeno nella fotografia di orientamento artistico – dal documentario, dal flash e dall’istantanea e dando vita ad un nuovo genere», scrive il critico Fritz Franz Vogel nel catalogo della manifestazione.

Del resto, nell’epoca del digitale, il rapporto tra fotografia documentaria e fotografia inscenata, è più che mai messo in questione. Basti ricordare la celeberrima fotografia di Jeff Wall, «Dead Troops Talk» del 1992, ricostruzione ad un tempo realistica e onirica di una scena di guerra in Afghanistan o le immagini di Andreas Gursky, il cui ‘realismo’ monumentale è potenziato da procedimenti di montaggio e correzione digitale.

Terreno di esplorazione

Scegliendo il tema della ‘messa in scena fotografica’, le curatrici delle Giornate fotografiche di Bienne si sono date la possibilità di esplorare un genere molto in voga fra i giovani fotografi svizzeri e di mostrarne le innumerevoli possibilità espressive, in bilico fra narrazione, rappresentazione teatrale e creazione di mondi artificiali.

Se tutte le mostre disseminate in vari spazi espositivi della città dimostrano innanzi tutto l’alto livello tecnico della nuova generazione di fotografi svizzeri – l’artista più giovane è nata nel 1984, il più vecchio nel 1962 – salta subito all’occhio anche la sua dimestichezza con le teorie estetiche e con le questioni relative al tema della rappresentazione e dei rapporti tra realtà e finzione.

Con molta ironia Geoffrey Cottenceau e Romain Rousset propongono per esempio delle immagini di paesaggi e animali riprodotti con coperte, materassi, sedie, tavoli e cavalletti. Herbert Weber trasfigura dal canto suo disordinati set fotografici in delicati paesaggi grafici in bianco e nero. Kaspar Flück gioca con i Lego e i trenini Märklin per creare immagini aeree dal sapore catastrofico e ludico ad un tempo.

Stratagemmi teatrali e digitali

Altri autori preferiscono un approccio piuttosto teatrale. Istvan Balogh ha chiesto alle sue modelle di fingere davanti all’obiettivo una crisi isterica (facendo riferimento così alla fotografia medica ed etnografica).

Roland Iselin mostra personaggi all’interno dei loro ambienti domestici, in atteggiamento di attesa. Il ticinese Christian Tagliavini propone scene d’interni caratterizzate da un raffinato uso dei colori e delle tonalità (il titolo del suo lavoro è del resto «Cromofobia»). Chantal Michel, artista che coniuga performance e fotografia, mette in scena se stessa in ambienti domestici.

Catherine Gfeller e Annaïk Lou Pitteloud fanno invece uso con saggezza delle possibilità offerte dall’elaborazione digitale delle immagini, la prima creando giochi di sovrapposizioni e trasparenze che richiamano la tecnica del collage, la seconda costruendo paesaggi urbani e interni che si avvicendano in una sorta di narrazione aperta e densa d’inquietudini.

L’elemento narrativo appare importante anche nel lavoro, di grande resa estetica e dal carattere piuttosto intimista, di Loan Nguyen. Stefania Malorgio, nella serie d’immagini che ritraggono la vita quotidiana di sua madre, si muove invece al confine tra messa in scena e reportage, mentre Jojakim Cortis e Adrian Sonderegger propongono immagini di pura finzione, a cavallo tra sogno e incubo.

Comune a tutte le fotografe e i fotografi esposti a Bienne è la grande libertà creativa ed espressiva con cui affrontano il mezzo fotografico. Il «far credere» che dà il titolo alla manifestazione si dimostra motore di invenzione, stimolo a portare la fotografia oltre i suoi limiti. Che del resto, dall’avvento del digitale, si sono fatti ancora più incerti.

swissinfo, Andrea Tognina

Le dodicesime Giornate fotografiche di Bienne si svolgono dal 5 al 28 settembre 2008.

In una dozzina di spazi espositivi della città, sono esposte le opere di 19 fotografi e degli allievi della scuola di arti visive del Canton Berna.

Artisti esposti: Geoffrey Cottenceau & Romain Rousset, Corinne L. Rusch, Markus Bertschi, Annaïk Lou Pitteloud, Istvan Balogh, Roland Iselin, Catherine Gfeller, Herbert Weber, Olivier Pasqual, Elisa Larvego, Loan Nguyen, Chantal Michel, Christian Tagliavini, Jojakim Cortis & Adrian Sonderegger, Taiyo Onorato & Nico Krebs, Stefania Malorgio

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