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La morte in mostra a Berna per il giorno dei morti

Allegoria della transitorietà, anonimo XVII sec. Kunstmuseum Bern

Morte e violenza sono onnipresenti nei media. La società evita però il contatto diretto con i morti. Non così il Museo d'arte di Berna, che da giovedì ospita la mostra "Six Feet Under".

Teschi, scheletri, tombe e cadaveri, dall’arte antica alle provocazioni più recenti. Violando un tabù, il museo avverte però i visitatori più sensibili che alcune opere potrebbero scioccarli.

“La sfida di questa mostra era trovare il modo di parlare del nostro rapporto con i morti in una società che preferisce rimuovere l’idea della mortalità” dice a swissinfo Bernhard Fibicher, uno dei curatori dell’esposizione.

In un mondo nel quale i valori più importanti sono il successo, l’individualismo e il divertimento, l’idea di morire diventa sempre più insopportabile, ancora più assurda e inconcepibile di quanto non lo fosse in epoche passate.

E anche dei morti ci sbarazziamo con rituali sempre più brevi. La morte deve restare asettica. Spesso avviene in un ospedale, del corpo malato e poi del cadavere si occupano gli specialisti, e così la realtà fisica della morte ci viene sottratta.

In Ghana probabilmente non ci sono tanti ospedali funzionali, ma una cosa sembra esserci: più tempo, anche per celebrare i morti. Per loro costruiscono bare che sembrano giocattoli, a forma di barca, di gallina, di casa, di scarpa. L’ultimo viaggio è organizzato da tutta la comunità e, come testimonia anche un video della svizzera Regula Tschumi, più divertente che da noi.

Basta un confronto con l’installazione di Berclaz de Sierre, pseudonimo di un giovane artista svizzero: sulle fila di lapidi, tutte uguali, tutte in triste pietra grigia, c’è sempre lo stesso nome: “Nessuno”. Anonimizzazione estrema: la morte ci rende tutti uguali.

Le coloratissime bare africane di Ataa Oko Ado sono strategicamente collocate all’entrata del museo: le altre sezioni sono decisamente più lugubri, a parte quella in cui stupende modelle giapponesi vestite di Dolce e Gabbana fanno “le morte” in posizioni lascive nelle foto di Izima Kaoru.

La morte fa paura anche agli sponsor

Nessuno degli abituali sponsor culturali, come grandi banche, assicurazioni, fondazioni ha voluto finanziare l’esposizione, che ha goduto del sostegno di un’unica fondazione: GegenwART.

Tema troppo delicato e rischioso. Eppure la mostra, davvero molto ricca di opere provenienti da tutto il mondo, e di artisti anche di grosso calibro (Andy Warhol, John Baldessari, Andres Serrano, per citarne qualcuno) potrebbe attirare parecchio pubblico, perché per quanto paradossale possa sembrare, l’uomo prova ripugnanza e terrore per la morte, ma ne è anche irresistibilmente affascinato.

Ed eccoci accontentati, perché ce n’è davvero per tutti i gusti: morti ammazzati, autopsie, segni lasciati sulla pelle dallo strangolamento, liquidi che schizzano da un corpo lasciato troppi giorni all’aria, quasi come ultimo segno della sua presenza corporea nel mondo. Addirittura necrofilia. Le presentazioni sono a volte estetizzate, a volte solo brutali e raccapriccianti.

Omaggi postumi

In fondo, chi più degli artisti è turbato e contemporaneamente affascinato dalla morte? Sembra essere una delle loro caratteristiche innate la sensibilità per tutto ciò che è estremo, e il voyeurismo dell’artista, la curiosità inappagabile dell’occhio, non conosce limiti. Come testimonia bene il quadro in cui Claude Monet ritrasse la moglie sul letto di morte nel 1879.

Un quadro che, come altri che si usava fare all’epoca, fu eseguito in poche ore. Monet non resistette alla tentazione di riprodurre lo strano colore violaceo che aveva preso il volto della moglie. In lui, confessò dopo, l’occhio dell’impressionista aveva preso il sopravvento su quello dello sposo. Di questo suo bisogno di dipingere la moglie morta provò poi vergogna, e alla sua memoria dedicò altri omaggi pittorici.

Non bisogna dunque pensare che siano solo i moderni gli artisti più morbosi e provocatori (come la coppia di cinesi fotografata con il feto di gemelli siamesi morti in cui si sta praticando un’inutile, sebbene commovente trasfusione di sangue). Il primo ad inaugurare l’estetica cadaveriale fu nel XVI secolo Hans Holbein, con il suo famoso Cristo nella tomba di cui Berna presenta copie d’epoca (l’originale è a Londra).

Memento mori

Una sala presenta una selezione di teschi in colori e deformazioni anche sorprendenti: c’è perfino il teschio di Pinocchio, che nemmeno da morto ha perso il naso lungo.

Un po’ d’ironia sparsa qua e là aiuta a rendere l’atmosfera meno pesante, come il mobile Ikea che volendo può essere trasformato in bara fatta in casa. O il video dell’artista tailandese Araya Rasdjarmrearnsnskook che tiene un seminario ai morti chiedendo loro cose del tipo: “Quali sono i suoi progetti per il futuro?”.

Proprio mentre in Germania non si è ancora spenta l’eco dello scandalo della profanazione di cadaveri da parte di soldati tedeschi in Afghanistan, ho chiesto all’artista thailandese come sia riuscita a non incappare in guai con la giustizia: “Erano cadaveri donati alla scienza, spesso professori o intellettuali. È stato l’ospedale a darmi il permesso di girare le immagini”.

swissinfo, Raffaella Rossello, Berna

Titolo della mostra: “Six Feet Under: autopsia della nostra relazione con i morti”.

Dal 2 novembre 2006 al 21 gennaio 2007 al Museo d’arte di Berna.

“Six feet under” è un’espressione inglese usata comunemente per esprimere l’idea di qualcuno ormai morto e sepolto.

È anche il titolo di una fortunata serie televisiva americana.

Le opere esposte appartengono alla collezione del Museo d’Arte di Berna e a diverse collezioni pubbliche e private. Spaziano su diverse epoche e provengono da diversi paesi e culture.

L’esposizione si divide in sei capitoli: Cadaveri, teschi e scheletri. Bare, tombe e lacrime. Omaggi – morti adorati e adulati. Morte dell’artista. Morte e Lifestyle. La vita dopo la morte.

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