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Quei corpi senza nome dei migranti morti in mare

Il naufragio del 3 ottobre 2013, che fece 366 vittime, visto dagli occhi di un bambino della scuola elementare di Lampedusa. AFP

A tre anni dal tragico naufragio di Lampedusa, nel quale morirono almeno 366 persone, i familiari delle vittime stanno ancora cercando di poter identificare i corpi e dar loro degna sepoltura. Un processo difficile, ma necessario, portato avanti con l’aiuto della Croce rossa svizzera.

“Avevamo detto loro tante volte di non partire, che era troppo pericoloso, ma non c’è stato verso. Così un giorno sono saliti su un barcone diretti in Europa e da allora non sappiamo più nulla”. Un velo di tristezza attraversa lo sguardo di Bila Bila Barre, di origini somale, mentre ci racconta il tragico destino dei suoi due nipoti, Hussene (20 anni) e Maxamud (19 anni), salpati dalla Libia per cercare rifugio in Europa.

Bila Bila Barre è convinto che i due ragazzi siano morti il 3 ottobre 2013, nel famoso naufragio al largo di Lampedusa che fece almeno 366 vittime e scosse il mondo intero. L’unico, tra l’altro, dal quale sono stati recuperati quasi tutti i corpi.

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Morti silenziose

Questo contenuto è stato pubblicato al Cosa resta del barcone affondato il 3 ottobre 2013 al largo di Lampedusa, facendo 366 vittime? Un anno dopo la tragedia, il fotografo Francesco Zizola ha accompagnato una squadra di sommozzatori in fondo al mare, dove giacciono silenziosi i resti di vite passate.

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“Le date coincidono, anche se nessuno dei sopravvissuti (155, ndr) ha confermato di averli visti sul barcone. Ma finché non vedremo i corpi, avremo il dubbio. Saranno imprigionati da qualche parte? Oppure sono stati uccisi da bande criminali specializzate nella vendita di organi? Si sentono così tante storie…”, afferma Bila Bila Barre, giunto in Svizzera come rifugiato nei primi anni Novanta ed ora cittadino elvetico.

Su richiesta della sorella, si è rivolto alla Croce Rossa Svizzera (CRS)Collegamento esterno per cercare di ritrovare i due giovani, o per lo meno i loro corpi. La CRS raccoglie infatti quotidianamente richieste di aiuto di famigliari separati dalla guerra o dall’esilio ed è stata lei a spingere le altre società nazionali della Croce Rossa a registrare i migranti dispersi in mare. Un primo passo verso l’identificazione delle vittime del Mediterraneo, che stando all’Alto commissariato ONU per i rifugiati (UNHCR) sarebbero più di 10’000 dal 2014 – 15,8 persone al giorno dall’inizio di quest’anno.

Il secondo passo lo ha fatto l’Italia, proprio dopo il naufragio di Lampedusa e senza sostegno da parte dell’Unione europea. Nel laboratorio LabanofCollegamento esterno, in seno all’Università di medicina legale di Milano, vengono analizzati i cosiddetti dati post-mortem delle vittime dei naufragi – come il DNA – e i dati ante-mortem, ossia gli effetti personali, le fotografie o i segni distintivi come tatuaggi o cicatrici. Elementi che, incrociati, possono permettere di risalire all’identità di una persona, spiega Vittorio Piscitelli, che dal dicembre 2013 occupa la carica di Commissario straordinario del governo italiano per le persone scomparse.

Alla ricerca di un nome, nell’album dei morti

Col sostegno della CRS, lo scorso autunno anche Bila Bila Barre si è recato a Milano con la speranza di identificare i suoi nipoti. Al suo fianco c’erano anche altri famigliari, residenti in Svizzera, di tre migranti dispersi in mare.

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65,3 milioni di profughi nel mondo, “mai così tanti” secondo l’UNHCR

Questo contenuto è stato pubblicato al Oggi una persona su 113 è un richiedente l’asilo, uno sfollato interno o un rifugiato: una situazione che rappresenta “un livello di rischio senza precedenti”, scrive l’UNHCR nel suo rapporto “Tendenze globali”Collegamento esterno (in inglese). A fine 2015, i rifugiati nel mondo erano almeno 21,3 milioni, di cui oltre la metà (51%) minorenni. Gli sfollati…

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“Al laboratorio Labanof mi hanno mostrato un album con le immagini dei cadaveri recuperati dal mare. Mi ero portato appresso una fotografia recente dei miei due nipoti e cercavo di trovare delle somiglianze con quei corpi deformati dall’acqua. Ma è stato così difficile…”.

Come nel caso di Bila Bila Barre, spesso l’analisi delle fotografie è l’unico strumento di identificazione possibile. Perché il test del DNA sia affidabile, serve infatti un legame di parentela diretto tra genitori e figli o tra fratelli. Capita però che i famigliari delle vittime vivano tuttora in un paese in conflitto come la Siria o l’Eritrea e non possano chiedere l’aiuto del loro governo o men che meno lasciare il paese.

Così, malgrado gli sforzi delle diverse organizzazioni di sostegno ai migranti e delle autorità italiane, molti naufraghi di Lampedusa sono ancora seppelliti da qualche parte in Sicilia, con un semplice numero sulla loro bara. E a più di otto mesi dal viaggio a Milano, anche Bila Bila Barre attende tuttora una risposta da parte del laboratorio.

Restituire dignità ai morti e ai vivi

Responsabile del servizio di ricerca della CRS, Nicole Windlin non ha dubbi sull’importanza che riveste l’identificazione delle vittime dei naufragi, non solo per restituire dignità ai morti, ma anche ai vivi.

“Per poter iniziare il processo di elaborazione del lutto, è fondamentale avere la certezza che una persona è effettivamente deceduta”, ci spiega. “Ritrovare un corpo significa poi anche dargli una degna sepoltura, secondo i riti previsti nelle diverse culture, e poter far fronte alle domande della comunità”.

Infine c’è poi il riconoscimento amministrativo: “Per le vedove, gli orfani o i genitori ci sono infatti tutta una serie di questioni che restano congelate se mancano i documenti che attestano il decesso”. Un coniuge, ad esempio, non può risposarsi e nemmeno ereditare dei beni.

Nicole Windlin racconta come a più di vent’anni dal conflitto in ex Jugoslavia, ci siano ancora un centinaio di famiglie in Svizzera che sperano di ritrovare i corpi dei loro cari.

Il caso dei migranti in mare si scontra tuttavia con un’altra difficoltà, secondo l’esperta. “In Bosnia c’erano famiglie che ricordavano ancora com’erano vestiti i loro cari, perché erano spariti il giorno stesso. I migranti invece sono in viaggio da mesi, talvolta da anni, e le uniche informazioni che ci giungono sono quelle fotografie pubblicate sulle reti sociali, spesso in posa. Per questo è ancora più difficile riconoscerli”. Senza contare che attualmente non esiste ancora una banca dati europea dei migranti dispersi in mare.

Il cimitero del Mediterraneo

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Con il ritorno della primavera sono ripresi in questi mesi anche i viaggi della speranza, dalle coste libiche a quelle italiane. E con essi anche i naufragi. Secondo l’UNHCR da inizio anno sono morte in media 15,8 persone al giorno. La maggior parte dei corpi viene però inghiottita dal mare oppure recuperata mesi e mesi più tardi.

Il caso del naufragio del 18 aprile 2015, nel quale morirono presumibilmente 700 persone, è emblematico. Finora la Marina italiana è riuscita a recuperare soltanto 169 corpi, adagiati sul fondo del mare vicino al relitto. Si stima però che nella stiva ci siano ancora intrappolati dai 200 ai 400 “corpi scheletrizzati”, afferma Vittorio Piscitelli. Le operazioni di recupero sono iniziate in questi giorni, ad oltre un anno dal tragico evento.

Di fronte a queste migliaia di vite perse in mare, Vittorio Piscitelli non ha peli sulla lingua: “L’Ue ha mostrato il suo lato più fragile. Ha mostrato di aver paura di gestire il fenomeno migratorio e anche quello dei corpi raccolti dalle acque, lasciando all’Italia la responsabilità di finanziare e gestire il programma di identificazione. Di fatto, l’Ue si è girata dall’altra parte”.

Contattate l’autrice via Twitter: @stesummiCollegamento esterno


Creare dei corridoi umanitari, bloccare i profughi in Africa o ancora intervenire militarmente per porre fine a guerre e dittature: sono alcune delle proposte evocate per evitare il ripetersi di questi drammi nel Mediterraneo. Cosa ne pensate? 


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