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Mariuccia Medici: il dialetto è come le radici di una persona

Mariuccia Medici con alcuni degli attori del Teatro dialettale della Svizzera italiana e il direttore generale della SRG SSR idée suisse, Armin Walpen Armin Walpen

Per 40 anni è stata maestra di scuola elementare a Lugano-Loreto, dove ha avuto allievi che poi si sono distinti nella vita come l'ex-direttore generale della SRG SSR idée suisse Antonio Riva. Dal grande pubblico è però conosciuta soprattutto per la sua attività teatrale: Mariuccia Medici, 91 anni, decana delle attrici dialettali ticinesi, ha impersonato in teatro e sullo schermo molte delle figure più popolari tra la gente del Canton Ticino.

Non mi considero assolutamente una star, anche se quando vado a fare la spesa molte persone mi avvicinano e mi dicono parole gentili. E’ la televisione che mi ha dato questa grande popolarità: le commedie dialettali sono ancora oggi i programmi con il più alto indice di ascolto della Televisione svizzera di lingua italiana. Forse i ticinesi mi vogliono bene proprio perché mi sentono parlare dialetto in queste commedie e mi considerano quindi una di loro. Io, comunque, non faccio caso a questa popolarità: come tutti “porti giò la mia tola dal rüt”, un’espressione tipicamente dialettale per definire una persona rimasta semplice.

Il dialetto fa parte della mia vita, mi è connaturale, congenito, anche se devo purtroppo rilevare che il nostro dialetto attuale è stato, per dire una parola non certo bella, “imbastardito” dall’italiano. Al giorno d’oggi si ha infatti la mania di tradurre o trasformare semplicemente in dialetto parole italiane, con risultati spesso ridicoli.

Mi ricordo di una commedia in cui un collega doveva dire una battuta che suonava così: “metat l’à in dal angul”. Al che io ho subito rilevato: “Eh, no, caro, in dialet a disum metat l’à in dal cantòn”. Esempi come questo ce ne sono molti. Il famoso “cumudin” per me non esiste. Ai miei tempi si parlava infatti dal “cifon”. Un altro esempio di “dialettizzazione” dell’italiano è l’imbuto che in dialetto si chiama “pedriò” e non “imbüt”.

E’ stata la mania vissuta in Ticino negli Anni Sessanta a farci perdere il vero dialetto. Mi ricordo che, allora, molti colleghi maestri proibivano ai loro scolari l’uso del dialetto. Io, invece, ho sempre cercato di difenderlo. È vero che, a quei tempi, molti giovani incontravano qualche difficoltà a parlare bene la lingua di Dante: quando dovevano esprimersi in italiano, avevano spesso l’abitudine di tradurre o meglio di italianizzare le parole dialettali, con risultati altrettanto ridicoli di adesso che si cerca di fare il contrario. .

A far passare il dialetto in secondo piano è stata anche la televisione. Con l’emarginazione, il dialetto ha perso anche la sua vitalità, la sua ricchezza, la sua capacità di rigenerarsi e creare parole nuove, legate alla vita di tutti i giorni.

Anni fa, quando insegnavo, quasi tutti i bambini parlavano dialetto, a parte qualche eccezione, figli di italiani immigrati, di svizzero-tedeschi o di qualche famiglia benestante. Ma anche questi ragazzi cercavano di impararlo perché altrimenti venivano emarginati, esclusi dai giochi del gruppo. Avevano quasi vergogna. Oggi, invece, mi sembra che a vergognarsi siano piuttosto i giovani che parlano ancora il dialetto.

Il dialetto, però, non morirà mai: ne sono convinta. Tra i miei fan ve ne sono molti addirittura giovanissimi, di sedici, diciassette anni. Questo dimostra che le commedie dialettali possono piacere anche ai figli di Internet. Ho comunque l’impressione che la gente non senta più il bisogno di andare a cercare le proprie radici e quelle del dialetto sono radici molto lontane. Ma mi sighiti a ripetum, ourmai a gu pü nagot da dì.

Mariuccia Medici

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