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Palestina, sogni e identità di un popolo oppresso

Raed Andoni di fronte al suo psicoterapeuta e ai suoi fantasmi più intimi. unifrance.com

Al suo primo lungometraggio, il regista palestinese Raed Andoni affronta il delicato tema dell'identità attraverso un'esperienza a dir poco inedita: il proprio cammino psicoterapeutico. Presentato al Festival internazionale del film di Friburgo, "Fix Me" è il racconto di una ricerca intima e pertanto profondamente collettiva.

Tutto ha inizio con una banale emicrania. Un dolore che è allo stesso tempo reale e simbolico. Da anni, infatti, Raed Andoni convive con queste ferite, metafora di un popolo oppresso e di un passato difficile da accettare.

Armato di ironia e umorismo, il regista palestinese decide di affrontare questo male attraverso la psicoanalisi e di condividere questo percorso con il pubblico. “Fix Me” si presenta dunque come un montaggio alternato, tra sedute mediche e stralci di vita quotidiana.

Nato e cresciuto in Cisgiordania, Andoni ha trascorso una vita lottando per la dignità dei palestinesi. Ora però rivendica il diritto elementare di vivere per se stesso, in una società in cui l’identità e i sogni collettivi hanno un ruolo preponderante quale strumento di lotta. swissinfo.ch l’ha incontrato a Friburgo, a margine del Festival internazionale del film.

swissinfo.ch: “Fix Me” è una sorta di invocazione a esplorare i territori dell’identità e della coscienza…  

Raed Anadoni: In questo film ho cercato innanzitutto di andare oltre agli stereotipi che dominano la realtà palestinese, quelle categorie in cui spesso veniamo imprigionati. Nel mondo arabo, i palestinesi sono visti come eroi, mentre in Occidente sono associati a un popolo in lacrime in un campo profughi perché queste sono le immagini diffuse dai mass-media.

Il popolo palestinese è però vittima anche di se stesso, di un bisogno intrinseco di definire un’identità collettiva. “Fix Me” s’interroga dunque anche sul posto lasciato ai sogni personali rispetto a quelli collettivi. È una domanda universale, ma che in Palestina assume un significato specifico, più profondo.

Riconsiderare questa identità collettiva non significa respingere il passato. Io sono palestinese e sostengo la causa del mio popolo. Tuttavia, riconsiderare questi fatti permette di portare in superficie domande più profonde, sulla mia esistenza in quanto essere umano. Non voglio rimanere imbrigliato nelle maglie di questo conflitto, perché è vero che sono palestinese, ma sono anche un essere umano.

swissinfo.ch: Com’è nata l’idea di fare un film a partire dalle sue sedute di psicoterapia?

R. A.: La prima ragione è strettamente personale: da anni soffro di forti emicranie nervose e convivo con una collera profonda. Volevo dunque capire, attraverso la psicoanalisi, la natura e l’origine di questa rabbia. In quanto cineasta, invece, mi interessava esplorare il mondo della psicoterapia quale terreno di ricerca e di sperimentazione. In fondo, anche il documentarista è una specie di psicologo, perché deve cercare di capire i personaggi che si trova di fronte.

Nel cinema come nella terapia, ciò che conta sono le domande che ci poniamo, la condivisione dei nostri dubbi e l’esplorazione, poco importa se le soluzioni trovate non sono le migliori.

swissinfo.ch: In “Fix Me”, interpreta parallelamente il ruolo di personaggio principale e quello di regista. Come è riuscito ad incarnare questa duplice veste?

R. A.: Devo ammettere che questo è stato l’aspetto più difficile del film. Ho deciso di creare diversi spazi immaginari e di svilupparli in parallelo. Così, durante le venti settimane di riprese ho interpretato contemporaneamente il ruolo di paziente, documentarista e regista di un film di finzione.

Nella sala di terapia, che poi è il cuore del film, non avevo alcun controllo. Era il medico a gestire tutto e il mio unico compito era quello di essere onesto con lui e con me stesso. Per non influenzare il contesto, abbiamo filmato dietro a un vetro e il risultato è una scena classica di teatro. In quanto documentarista, invece, ho ripreso la mia famiglia, i miei amici, un mio ex compagno di prigione. In questo spazio ero io a decidere le domande e gli altri ad esprimersi. Infine, nel film c’è anche un terzo spazio di lavoro, più personale. C’è una parte di finzione con elementi molto simbolici come la caduta di un pezzo di muro israeliano.

swissinfo.ch: “Fix me” affronta temi molto profondi con una punta di umorismo. Un riflesso della società palestinese ?

R. A.: A dire il vero speravo ci fosse una punta di umorismo in più, ma poi il rischio che si trasformasse in sarcasmo era troppo grande… È vero, comunque, che i palestinesi usano l’umorismo come strategia per convivere con il loro dolore. Anche perché sono ancora in pochi ad andare dallo psicologo. (ride…) La società è costruita su grandi famiglie e sarebbe uno scandalo se si sapesse in giro che qualcuno è in terapia!

swissinfo.ch: Il film è uscito anche in Palestina. Com’è stato accolto?

R. A.: Molti giovani si sono riconosciuti in questo film, quasi fosse uno specchio della loro libertà, del loro modo di essere palestinesi. Per la mia generazione e quella più vecchia, invece, affrontare queste domande è più difficile perché significa confrontarsi apertamente con le proprie debolezze. E questo è un rischio che molti palestinesi non vogliono assumersi per paura di sprofondare. L’obiettivo del film non è certo quello di distruggere la fierezza di queste persone, ma non possiamo nemmeno continuare a cancellare le sofferenze che abbiamo vissuto. Per questo è importante interrogarsi.

swissinfo.ch: Lei fa parte di una nuova generazione di cineasti palestinesi. Cosa significa lavorare in un contesto politico così difficile?

R. A.: Abbiamo sicuramente più libertà rispetto ad altri paesi arabi perché non abbiamo uno Stato e la gente si sente più libera di esprimersi. Il rovescio della medaglia però è che il cinema è fortemente condizionato dalla questione dell’occupazione. Da oltre 60 anni, la presenza israeliana influenza la nostra vita quotidiana e sta diventando parte del nostro subconscio. Non è facile uscire da questo schema, liberarsi in un qualche modo dal trauma dell’occupazione.

swissinfo.ch: In che modo le rivoluzioni in atto in diversi paesi del mondo arabo musulmano posso incidere sulla causa palestinese?

R. A.: Non sono in grado di analizzare ciò che sta accadendo in questi paesi, ma in un qualche modo mi entusiasma. Lo scorso anno sono stato tre volte in Tunisia e provo simpatia per questo popolo così vicino al nostro. Condividiamo una storia e una cultura e spero davvero che questi movimenti possano portare a qualcosa di positivo. Cosa porterà la primavera araba alla causa palestinese, invece, è ancora troppo presto per dirlo.

Il Festival internazionale del film di Friburgo (FIFF) ha si tiene dal 19 marzo al 26 marzo.

Il concorso internazionale comprende quest’anno 12 film. Il vincitore sarà ricompensato con il “Regard d’or”.

Quest’anno sono sette le sezioni tematiche:

– Black Note: Musica nera nel cinema, sia essa africana o americana.

. Omaggio a Lita Stantic: Una selezione di film della produttrice che in Argentina ha favorito lo sviluppo della Nouvelle Vague.

. Sakartvélo: Nel 2010, il georgiano George Ovashvili vince il “Regard d’or”  con il film The Other Bank. Nel 2011, 17 film raccontano 80 anni di cinema georgiano.

. The Da Huang Network: La produzione di un gruppo cineasti della Malaisia che hanno scelto di lavorare in rete e sono attivi nella produzione di film di qualità a basso costo.

. Nella pelle di un terrorista: Dieci anni dopo la tragedia delle Torri gemelle, una serie di film sul terrorismo visto dai terroristi.

. Lima, Pristina: A margine del 50esimo anniversario della Direzione dello sviluppo e della cooperazione (DSC) – pure partner del FIFF – una selezione di sei film provenienti dai paesi prioritari della cooperazione svizzera.

 

. La donna che sapeva troppo: Otto film per affrontare la questione delle donne nel film noir. Misoginia o nuova immagine?

. Corti e programmi speciali

Nato in Cisgiordania nel 1967, Raed Andani è produttore, regista e sceneggiatore.

Cofondatore della società di produzione Dar Films, con sede a Ramallah, ha prodotto il documentario Live form Palestine di Rachid Masharawi.

Fix Me è il suo primo lungometraggio ed è stato presentato al Festival internazionale del film di Friburgo nella categoria “Concorso internazionale”.  Coproduzione svizzera, francese e palestinese, il film è stato premiato alle Giornate cinematografiche di Cartagine.

Raed Andani è stato definito il Woody Allen palestinese e, accanto a Elia Suleiman, è tra i principali registi palestinesi.

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