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Il rischio di «libanizzazione» del conflitto siriano

Ordigno inesploso dopo un attacco dell'esercito siriano a Kuraan, nel nord-ovest del paese Timo Vogt/Bildrand

Le potenze regionali del Medio Oriente sono sempre più coinvolte nella crisi siriana. La situazione ricorda quella del Libano 30 anni fa. La comunità internazionale rimane divisa e impotente. Ma la dinamica innescata dal piano Annan potrebbe riservare delle sorprese.

Il massacro di Hula, nelle vicinanze di Homs, ne è una prova ulteriore: le violenze in Siria sono caratterizzate da un regime le cui milizie reprimono una sollevazione popolare e si scontrano con un’opposizione male armata. E questo nonostante il presidente siriano Bashar al Assad ripeta fin dall’inizio della sollevazione che la Siria è vittima di un gruppo di terroristi finanziati dall’estero.

Il conflitto sanguinoso tra un popolo e il suo tiranno non rimane tuttavia libero dalle interferenze degli altri paesi della regione. È quanto osserva Yves Besson, ambasciatore svizzero in Libano e in altri paesi arabi dal 1971 al 1982 e ancora oggi legato a questa regione per il suo lavoro accademico.

Yves Besson mette in rilievo le analogie tra la guerra civile libanese (1975-1990) e la crisi siriana: «Così come il Libano era stato il campo di battaglia di un conflitto inter-arabo, la Siria sta diventando teatro di un gioco regionale più ampio”.

«Molti indizi inducono a pensare che l’islamismo radicale, sostenuto sottobanco dall’Arabia Saudita, cerchi lo scontro, la guerra civile. Dall’altra parte troviamo, sempre in Siria, le Guardie della rivoluzione iraniane, che possono contare sull’Iraq come base per le loro operazioni».

Dietro le quinte della crisi siriana si svolge un braccio di ferro che oppone l’Iran, la Siria e il loro alleato libanese, Hezbollah alle monarchie del Golfo, guidate dal Qatar e dall’Arabia Saudita.

Sunniti contro sciiti

«Molti osservatori si rifiutano di riconoscere l’importanza della dimensione religiosa nelle tensioni in Medio Oriente. Ma l’opposizione tra sunniti e sciiti non è scomparsa con le insurrezioni popolari nel mondo arabo, anche se spesso è solo latente. La repressione della sollevazione in maggioranza sciita nel Bahrein è un esempio molto chiaro di questa situazione», afferma Besson.

In effetti, il rovesciamento del regime di Saddam Hussein in Iraq da parte della coalizione guidata da Washington e Londra ha finito per favorire l’Iran sciita, rianimando nel contempo i timori delle monarchie sunnite del Medio Oriente. Tensioni che oggi si cristallizzano nella volontà di Teheran di dotarsi dei mezzi per costruire una bomba atomica.

Il futuro del regime di Assad – formato essenzialmente dalla comunità sciita degli alauiti – peserà sugli equilibri regionali tra sciiti e sunniti. Yves Besson ricorda che la gran parte delle città insorte sono a maggioranza sunnita. «Le minoranze in Siria hanno tutto da perdere in questo scontro tra sunniti e sciiti. Gli armeni del nord, per esempio, temono un nuovo esilio».

«Ma i più esposti sono i cristiani, protetti dal regime di Assad, ma privi di sostegno esterno. Molti cristiani iracheni si sono del resto rifugiati nei sobborghi di Damasco dopo la caduta di Saddam Hussein».

Pacificare o amplificare la guerra civile

Un intervento militare internazionale contro il regime di Assad – un’opzione evocata con insistenza nei giorni scorsi – rischierebbe dunque di trascinare l’intera regione in una spirale di violenza dalla conseguenze imprevedibili. È quel che teme Marcelo Kohen, professore all’Istituto superiore di studi internazionali e sulla cooperazione di Ginevra.

«Di fronte alle atrocità commesse dal regime siriano, è molto facile ricorrere all’uso della forza. Le opinioni pubbliche sono già pronte a questa eventualità. Ma bisogna pensare alle conseguenze, sia in caso di un intervento diretto, sia nell’eventualità di un sostegno militare ai ribelli».

«Dalla fine della guerra fredda, sul piano internazionale si è imposta una cultura della forza. L’esperienza insegna tuttavia, guardando a Iraq, Afghanistan e Libia, che l’uso della forza non risolve tutti i problemi, anzi», osserva Kohen.

La responsabilità di proteggere

I partigiani dell’opzione militare invocano la «responsabilità di proteggere», un principio adottato dall’ONU nel 2005 per permettere alla comunità internazionale di intervenire in caso di genocidio o di crimini contro l’umanità.

«La responsabilità di proteggere ha suscitato delle speranze smisurate», rileva Kohen. «Tuttavia questo principio non comporta elementi nuovi rispetto alle possibilità di ricorrere alla forza previste dalla Carta delle Nazioni Unite».

Rimangono l’opzione diplomatica e il piano di pace in sei punti di Kofi Annan, l’ex-segretario generale dell’ONU. Un’iniziativa ritenuta morta da molti osservatori, visto il mancato rispetto del piano da parte di Damasco,

Per Yves Besson, l’iniziativa ha tuttavia perlomeno il merito di esistere. «Diplomaticamente e politicamente è utile. È la sola concessione fatta dal regime di Assad, anche se sapeva di avere i mezzi per renderla lettera morta. La comunità internazionale non vi metterà termine, anche se nessuno si illude della sua efficacia. Attorno a questo piano è possibile costruire altre cose».

Un’alternativa alla guerra

Un punto di vista condiviso da Marcelo Kohen: «Questa crisi potrebbe anche permettere alla comunità internazionale di trovare delle formule innovative per regolare i conflitti all’interno degli stati senza ricorrere alla forza».

«Gli strumenti a disposizione delle Nazioni Unite (sanzioni, missioni d’osservazione, giustizia internazionale) sono in via di applicazione. È troppo presto per fare un bilancio. Per la comunità internazionale si tratta di imparare ad articolare meglio l’insieme di questi strumenti. La speranza è di ottenere risultati migliori a costi inferiori, anche in termini di costi umani e di distruzioni, di quelli di un intervento armato».

Sia come sia, l’atteggiamento della Russia, alleato strategico di Damasco, si rivelerà determinante. Yves Besson ne è convinto. «La chiave è a Mosca e in nessun altro luogo. E questo Washington non lo vuole riconoscere. Tutta questa dimostrazione di pietà umana maschera un gioco completamente cinico che oppone gli occidentali ai russi e ai cinesi».

Nelle ultime settimane la Svizzera ha bloccato circa 20 milioni di franchi appartenenti a persone del clan di Bashar al-Assad.

Complessivamente sono circa 70 i milioni di origine siriana congelati nelle banche elvetiche, stando a quanto dichiarato dalla portavoce della Segreteria di Stato dell’economia Marie Avet, che ha confermato una notizia in tal senso pubblicata dalla NZZ am Sonntag.

Il governo svizzero aveva decretato sanzioni contro il presidente siriano, diversi membri della sua famiglia, ministri e uomini d’affari nel maggio 2011. Queste sanzioni sono poi state più volte estese, in sintonia con le misure adottate dall’Unione Europea. Dodici nomi figurano attualmente sulla lista delle sanzioni decise dalla Confederazione.

Durante una riunione a Ginevra svoltasi il primo giugno, il Consiglio dei diritti umani dell’ONU ha chiesto un’inchiesta completa e indipendente sul massacro commesso il 25 maggio a Hula (108 morti, tra cui 49 bambini).

La risoluzione del Consiglio è stata adottata per 41 voti contro tre (Russia, Cina, Cuba) e due astensioni.

Il testo chiede anche l’applicazione immediata e completa del piano di pace dell’inviato speciale dell’ONU e della Lega araba Kofi Annan.

Durante questa quarta sessione speciale dedicata alla Siria dall’inizio dell’insurrezione, l’ambasciatore svizzero Alexandre Fasel ha dichiarato che «gli autori dei crimini commessi nel paese, sia chi dà gli ordini sia chi li esegue, partigiani del governo e oppositori, devono sapere che dovranno rispondere dei loro atti davanti alla giustizia. Di conseguenza, la Svizzera chiede al Consiglio di sicurezza di deferire subito la situazione alla Corte penale internazionale».

Il 2 giugno la Lega araba ha chiesto all’ONU di fissare un calendario diplomatico per l’applicazione del piano Annan e di ricorrere al capitolo VII della sua Carta per imporre a Damasco delle sanzioni.

L’ambasciatrice statunitense all’ONU Susan Rice ha detto che la comunità internazionale potrebbe dover agire in ultima ratio al di fuori del Consiglio di sicurezza.

Il segretario alla difesa americano Leon Panetta ha però poi fatto dietrofront, indicando che ogni operazioni militare in Siria dovrà avere l’avallo dell’ONU.

Il presidente russo Vladimir Putin non si smuove invece dalle sue posizioni: in visita a Berlino e a Parigi ha scartato ogni ipotesi di sanzioni.

Traduzione dal francese di Andrea Tognina

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