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Condanna annullata per Stephan Schmidheiny

«Vergogna, vergogna», hanno urlato molti dei presenti in aula, tra cui i parenti delle vittime, dopo la lettura del verdetto. Keystone

La Corte di cassazione italiana ha annullato mercoledì sera la condanna a 18 anni di carcere inflitta in secondo grado a Stephan Schmidheiny. Il motivo? Il reato è prescritto. In Svizzera, il Tribunale federale aveva archiviato una causa penale contro il magnate elvetico per la stessa ragione. In materia di diritto civile il termine di prescrizione potrebbe presto essere prolungato. Non però abbastanza per le vittime dell'amianto.


«Annullamento senza rinvio della condanna a 18 anni per Stephan Schmidheiny perché tutti i reati sono prescritti». La richiesta avanzata mercoledì pomeriggio dal procuratore generale Francesco Iacoviello, è stata avallata in serata dalla Corte di Cassazione.

«Non essendo stati contestati gli omicidi, non si può legare il disastro ambientale alle vittime – ha spiegato il procuratore generale – il disastro è prescritto per la chiusura degli stabilimenti nell’86 e pertanto la condanna va annullata».

Nel febbraio 2012, l’ex proprietario della Eternit era stato condannato in primo grado a 16 anni di carcere per «disastro ambientale doloso permanente» e per «omissione volontaria di cautele antinfortunistiche». Nel giugno 2013, il tribunale d’appello aveva poi aumentato la pena a 18 anni.

La sentenza è stata accolta con incredulità dai presenti in aula, tra cui molti parenti delle vittime, che hanno urlato «vergogna, vergogna».

Naturalmente soddisfatta invece la difesa di Schmidheiny: con questa decisione della Corte, «è ormai provato che il processo Eternit a Torino aveva violato più volte il diritto a un processo equo così come il principio di ‘nessuna pena senza legge’, secondo gli articoli 6 e 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo», ha dichiarato la portavoce di Schmidheiny, Elisabeth Meyerhans Sarasin.

Causa archiviata anche in Svizzera nel 2008

In Svizzera, Stephan Schmidheiny era stato messo in causa penalmente solo una volta. La denuncia per omicidio colposo e lesioni personali sporta dai familiari di una vittima dell’amianto contro di lui e contro il fratello Thomas era però stata definitivamente archiviata dal Tribunale federale nel 2008. Anche in quel caso, la Corte suprema svizzera aveva motivato la decisione con il fatto che il reato era caduto in prescrizione.

«In Svizzera, i termini di prescrizione in materia penale decorrono dalla commissione del reato. Concretamente l’ultima esposizione all’amianto», spiega l’avvocato David Husmann, presidente dell’Associazione svizzera per le vittime dell’amiantoCollegamento esterno (VAO), contattato da swissinfo.ch prima dell’annuncio del verdetto della Corte di cassazione italiana.

Per Husmann, l’ordinamento penale svizzero ha la sua ragione d’essere: «Ho una certa comprensione per il fatto che nel diritto penale una persona, dopo un certo periodo, deve essere lasciata in pace».

Nel 2009, quando si era aperto il processo di Torino, rispondendo a un’interpellanza parlamentareCollegamento esterno il governo svizzero aveva indicato di non ritenere opportuno modificare il Codice penale per prolungare la prescrizione in casi come quello dell’amianto.

«Un termine di prescrizione più lungo risponderebbe principalmente al desiderio di trovare un responsabile e di soddisfare un bisogno di vendetta – si leggeva nella risposta del governo. Dal punto di vista della politica criminale, una sanzione penale non appare tuttavia necessaria. Se nel frattempo l’autore non ha commesso altri reati, la sanzione, il cui obiettivo principale consiste nel reinserire l’autore nella società e nell’evitare le recidive, non avrebbe molto senso».

Strasburgo bacchetta la Svizzera

Il problema è che questo stesso principio vige anche in materia di diritto civile, sottolinea Husmann. Il Codice delle obbligazioni prevede infatti che il termine di prescrizione scade 10 anni dopo l’evento dannoso. Uno scoglio insuperabile per le vittime dell’amianto e le loro famiglie che intentano una causa civile per ottenere riparazione.

Le malattie provocate dalla «polvere che uccide» hanno un periodo di latenza molto lungo, in media 25 anni. In altre parole, una persona rimasta esposta all’amianto nel 1980 e ammalatasi di mesotelioma nel 2005, per avere qualche possibilità di successo avrebbe dovuto fare causa alla sua ditta nel… 1990!

La sentenza di Strasburgo

Il ricorso accolto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo riguardava un uomo deceduto nel 2005 a causa di un cancro alla pleura, diagnosticatogli un anno prima. Cinque giorni dopo la sua morte, la vedova aveva fatto causa chiedendo un indennizzo di oltre 200’000 franchi per la perdita del marito dovuta a malattia contratta sul posto di lavoro. Il caso era andato fino al Tribunale federale, che aveva statuito che il diritto a ottenere un risarcimento dall’ex datore di lavoro si scontrava con il termine di prescrizione di dieci anni. L’operaio aveva lavorato tra il 1966 e il 1978 negli stabilimenti della Maschinenfabrik Oerlikon (oggi Alstom Svizzera). La domanda di indennizzo avrebbe dovuto venir presentata al più tardi nel 1988, ossia 16 anni prima che gli venisse diagnosticato il cancro.

Una situazione condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomoCollegamento esterno (CEDU), che nel marzo di quest’anno ha accolto il ricorso della famiglia di una vittima dell’amianto. La CEDU ha stabilito che la Svizzera ha violato il diritto a un processo equo, rifiutando la concessione di un indennizzo per avvenuta prescrizione.

Dieci, venti o trent’anni?

Prima che la CEDU emanasse la sua sentenza, nel novembre 2013, il governo svizzero ha presentato un progetto di revisione del diritto in materia di prescrizione, proponendo in particolare di portare da 10 a 30 anni il termine di prescrizione assoluto.

Il Consiglio nazionale ha dibattuto il disegno di legge in settembre, decidendo di fissare il termine di prescrizione a 20 anni. Secondo la maggioranza della Camera bassa del parlamento, un termine di 30 anni genera un’eccessiva insicurezza, soprattutto nelle aziende, confrontate con alti costi assicurativi e burocratici, a causa dell’obbligo di dover conservare i documenti dell’epoca.

Una decisione «inaccettabile», per David Husmann. «La maggior parte dei casi cadrebbe in prescrizione. Anche per un termine di 30 anni eravamo contrari. Sosteniamo una regola diversa, ossia che la prescrizione debba iniziare nel momento in cui il danno si manifesta. È semplicemente una questione di logica. Non vi può essere prescrizione prima che l’evento dannoso si manifesti. In Francia, ad esempio, è una soluzione applicata da diversi anni».

Husmann spera ora che il Consiglio degli Stati – il secondo ramo del parlamento che dovrà pronunciarsi sulla revisione – cambi rotta. In caso contrario, la VAO è pronta a dare battaglia fino a Strasburgo: «Se non si cambierà, inoltreremo un nuovo ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo e ancora una volta vinceremo».

Perché cambiare?

Durante il dibattito in Consiglio nazionale, alcuni deputati di destra hanno sottolineato che il prolungamento del termine di prescrizione non corrisponde al metodo che il parlamento ha scelto per regolare questo genere di rischi.

«Il metodo che abbiamo scelto consiste in un’assicurazione obbligatoria, che combinata ad altre assicurazioni come l’AVS [Assicurazione vecchiaia e superstiti], copre molto meglio il danno subito nel caso in cui si è rimasti esposti senza saperlo a materie che in seguito provocano malattie», ha sottolineato il deputato dell’Unione democratica di centro Yves Nidegger. Questo metodo è preferibile ai sistemi di azione giudiziaria accessibili solo a chi se lo può permettere e che consentono di aprire procedure solo contro debitori ancora esistenti.

David Husmann ammette che la situazione in Svizzera è relativamente buona. Tuttavia le assicurazioni, in particolare la SUVACollegamento esterno [l’istituto nazionale svizzero di assicurazione contro gli infortuni], non coprono interamente le spese cui deve far fronte qualcuno che si è ammalato a causa dell’amianto. Ad esempio, viene corrisposto solo l’80% del salario.

Fondo d’indennizzo

Per mettere la parola fine a una vicenda che si trascina ormai da anni e nello stesso tempo per schivare gli ostacoli creati dal termine di prescrizione, la VAO ha chiesto la creazione di un fondo d’indennizzo a favore di quelle persone che non avrebbero più diritto legale ad ottenere dei risarcimenti. Un fondo che dovrebbe disporre di circa mezzo miliardo di franchi, secondo le stime della VAO. La proposta, sostenuta dai sindacati e dalla sinistra, è stata appoggiata anche dalla commissione degli affari giuridici del Consiglio nazionale.

A fine ottobre, il governo ha però risposto negativamenteCollegamento esterno. Il Consiglio federale si è detto disposto ad indire una tavola rotonda tra tutti gli ambienti interessati, ma ha respinto l’idea di un fondo pubblico. Nella sua risposta, il governo ricorda di aver proposto appunto di aumentare a 30 anni il termine di prescrizione assoluto e sottolinea che il risarcimento delle vittime dell’amianto «si fonda in primo luogo sulla responsabilità di diritto privato dei privati autori del danno, in particolare quella dei datori di lavoro nei confronti dei loro impiegati». Istituire un fondo statale, «significherebbe addossare una responsabilità privata allo Stato».

«Condivido in parte l’opinione del governo secondo cui non tocca allo Stato indennizzare danni provocati da privati», dichiara David Husmann. Il presidente della VAO osserva però che lo Stato non è esente da critiche nella vicenda amianto: «La SUVA, che è un’azienda di diritto pubblico, e l’Ufficio federale della sanità pubblica avrebbero dovuto controllare l’applicazione delle misure di sicurezza. Invece non lo hanno fatto [ndr: critica che la SUVA ha sempre respinto]. Per questo riteniamo che lo Stato non possa chiamarsi fuori». 

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