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Quando il Tibet sfida il regime cinese

Domenica 19 marzo, l'esercito cinese nelle strade di Lhasa AFP

A cinque mesi dalle Olimpiadi, Pechino ha subito un severo smacco perdendo parte della sua credibilità. È l'analisi della specialista e grande amica del Tibet Claude B. Levenson.

Il controllo capillare della polizia a Lhasa e lo spiegamento delle forze dell’ordine cinesi fanno riaffiorare i ricordi di piazza Tiananmen.

Come in un brutto scenario, i reggenti della Città proibita sono confrontati a ciò che senza dubbio temevano maggiormente: la sfida tibetana. E la loro reazione all’espressione di una frustrazione profonda – che loro stessi hanno alimentato durante i decenni dell’occupazione – evidenzia agli occhi del mondo la fragilità della rivendicazione di Pechino su un paese vicino, conquistato con la forza delle armi mezzo secolo fa.

Quello che emerge dai movimenti di protesta – dapprima pacifici e poi più violenti a causa della brutalità della repressione (una reazione di paura ed insicurezza) – è l’illegittimità della presenza cinese in Tibet.

Bandiere ben visibili

L’occupazione militare e il consumismo a tutto campo lanciato ad inizio Millennio con il «Programma di sviluppo dell’Ovest» non sono bastati a dissolvere il sentimento nazionale dei tibetani. E nemmeno il loro gusto della libertà.

Questa attestazione d’identità, in particolare attraverso la presenza visibile di bandiere tibetane proibite il cui solo possesso è sinonimo di lunghe pene detentive, lo testimonia: i tibetani vogliono preservare la loro alterità sul loro suolo ancestrale, di fronte alla minaccia molto reale di una “cinesizzazione” accelerata, imposta da una politica deliberata.

Per le autorità cinesi la posta in gioco è grande: lo strombazzamento eccessivo della generosità del loro gesto di portare «la civilizzazione ad un popolo arretrato e barbaro», risveglia un puzzo di colonialismo che si pensava essere passato di moda.

Uranio, legname, petrolio,…

Tanto più che l’afflusso incontrollato di coloni si accompagna di un totale sfruttamento delle ricchezze naturali (abbondanti sugli altopiani tibetani, dall’acqua all’uranio passando dal legname e il petrolio), essenzialmente a beneficio di una lontana metropoli affamata di ciò che può nutrire la sua macchina economica confezionata.

Osservando ora i controlli capillari della polizia a Lhasa e lo spiegamento delle forze dell’ordine cinesi nelle borgate tibetane solitamente tranquille al di fuori della regione detta autonoma, riaffiorano immancabilmente i ricordi di Tiananmen. Reminiscenze che appannano la bella vetrina che il regime si sforza di lucidare per la sua grande gloria.

Di colpo, gli atleti s’interrogano e i governi democratici sono visibilmente in imbarazzo: chiamare cortesemente un regime totalitario ad astenersi da un uso sproporzionato della forza, non significa entrare nel suo gioco, invece di difendere in modo dignitoso i propri principi?

Certo, la replica non si fa attendere: «E gli interessi economici?». Per l’appunto, i legami economici non trarrebbero profitto dal rispetto dei diritti fondamentali di coloro che sono gli artefici del “miracolo” cinese?

Dalai Lama contro il boicottaggio

Sebbene l’idea del boicottaggio si profili nuovamente all’orizzonte (è già successo in passato, ad esempio per i Giochi olimpici di Mosca a causa dell’invasione dell’Afghanistan e, in risposta, per quelli di Atlanta), non è forzatamente questa la soluzione ad un problema trascurato per troppo tempo.

Lo stesso Dalai Lama non lo auspica. Per lui è importante che l’impegno di rispettare i diritti umani assunto dai dirigenti sia mantenuto.

Chiedendo un’inchiesta indipendente su ciò che sta succedendo in un Tibet ormai chiuso col lucchetto e vietato agli stranieri, soprattutto ai giornalisti, il leader tibetano in esilio prende la comunità internazionale come testimone della sua persistente volontà di dialogo.

Berlino 1936

Ignorarlo significherebbe riportare alla mente ricordi ancora più sinistri di quelli di Mosca e Atlanta: i giochi olimpici di Berlino del 1936.

Ebbene, se la storia ha qualcosa da insegnare, è evidente che è la volontà di evitare di alzare delle onde a far rovesciare la nave.

La sorte dei tibetani e del loro paese si pone quindi in termini meno esotici e più realistici di quelli che alcuni avrebbero la tendenza a credere: al di là delle Olimpiadi, la posta in gioco è alta, non soltanto per Pechino, ma anche per il resto del mondo interdipendente, nel quale non ci sono affatto più paesi completamente indipendenti.

swissinfo, Claude B. Levenson
(traduzione dal francese: Luigi Jorio)

Il Dalai Lama ha annunciato il 18 marzo che se le violenze perpetrate dai suoi compatrioti in Tibet dovessero diventare incontrollabili, si dimetterebbe dalle sue funzioni di capo politico.

Le manifestazioni contro il regime cinese, iniziate pacificamente il 10 marzo, hanno assunto durante la settimana un carattere violento. Sono state duramente represse dalla polizia cinese, la quale ha fornito un bilancio ufficiale di 16 morti e decine di feriti.

Il governo tibetano in esilio parla dal canto suo di oltre 80 morti.

Il primo ministro cinese, Wen Jiabao, ha accusato i tibetani di voler intaccare gli sforzi messi in atto da Pechino per l’organizzazione delle Olimpiadi, previste per quest’estate.

La Confederazione è stata tra i primi paesi a riconoscere la Repubblica popolare in occasione della sua proclamazione in Cina.

È pure stata il primo stato ad accogliere rifugiati tibetani dall’inizio dell’esilio nel 1959/1960.

La comunità tibetana in Svizzera (circa 3’000 persone) è stata per lungo tempo la più importante al di fuori del continente asiatico. Ha trovato in Svizzera un terreno favorevole che ha consentito una lenta ma riuscita integrazione, preservando l’eredità culturale e le sue tradizioni.

I suoi membri vivono essenzialmente nella Svizzera tedesca.

Il monastero di Rikon, nel canton Zurigo, si è forgiato nel mondo una reputazione degna del suo titolo di Istituto di alti studi tibetani. Dispone di una ricca biblioteca e offre possibilità di studi filosofici e spirituali.

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