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Il ritorno in auge del salario minimo

Barack Obama fa shopping in un negozio GAP, una catena che all'inizio dell'anno ha aumentato il salario minimo. Keystone

Chiamati alle urne il 18 maggio, gli svizzeri non sono gli unici ad interrogarsi sull'opportunità di istituire un minimo salariale per tutti i lavoratori o di aumentarlo in modo consistente laddove già esiste. Il dibattito infuria in molti paesi occidentali ed emergenti.

Negli Stati Uniti, Barack Obama ha annunciato l’intenzione di aumentare il salario minimo di quasi il 40%, portandolo a 10,10 dollari all’ora. Non è certo che al Congresso la proposta ottenga la maggioranza, ma il segnale è chiaro: “Date un aumento all’America”, ha insistito il presidente statunitense durante il suo discorso annuale sullo stato dell’Unione, il 28 gennaio scorso.

Il 2 aprile il governo tedesco ha adottato la legge che introduce un salario minimo generalizzato in Germania: una concessione della cancelliera Angela Merkel ai suoi partner socialdemocratici di governo. Alla metà di gennaio, nel Regno Unito il ministro del bilancio George Osborne si è dichiarato favorevole ad un aumento dell’11% del salario orario minimo per ripristinarlo al livello cui si situava prima della crisi. La Cina ha deciso lo scorso anno di rivalutare il salario minimo del 18%.

Queste manovre sono una conseguenza diretta della crisi finanziaria scoppiata nel 2008 e poi della crisi economica globale, secondo Sergio Rossi, professore di economia presso l’università di Friburgo: “I dirigenti di molti paesi cominciano a rendersi conto che i bassi salari sono dannosi per l’economia. È infatti il potere d’acquisto delle famiglie che determina la crescita economica nel lungo termine”.

D’altra parte, di fronte a delle finanze pubbliche nelle cifre rosse, i governi hanno la scelta tra due opzioni: “O decidono di aumentare le imposte, una misura che non è mai popolare, o danno una mano ai bassi salari, in particolare per ridurre la spesa pubblica in materia di protezione sociale”, rileva Sergio Rossi.

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Ridurre le disuguaglianze

Professore presso l’International institute for management development (IMD) di Losanna, Stéphane Garelli sottolinea da parte sua che questo rinnovato interesse politico per il salario minimo è “il risultato della crescente disparità della ripartizione delle ricchezze e di una sensibilità maggiore verso molti ‘working poor’ in basso alla scala salariale”. Nel mondo, l’1% delle famiglie possiede il 46% della ricchezza, ossia 110’000 miliardi, precisa Garelli.

In febbraio, esperti del Fondo monetario internazionale (FMI) hanno stimato che le disuguaglianze sociali rischiano di “amputare la crescita”, distanziandosi così dalle cure di austerità che lo stesso FMI ha prescritto negli ultimi anni, in particolare in Grecia.

In un discorso pronunciato il 24 gennaio, il direttore generale dell’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO) Guy Ryder è andato oltre: “Le disuguaglianze creano frustrazioni tra la popolazione , aumentando il rischio di instabilità. I disordini in corso in molti paesi sono alimentati da un senso di ingiustizia”, ha affermato.

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Un’idea liberale

Se il salario minimo è un vecchio cavallo di battaglia dell’ILO, che lo menzionava già in un rapporto del 1927, l’interesse dei governi è invece relativamente nuovo. Fino ai primi anni 1990, il consenso prevalente era che il salario minimo fosse dannoso per l’occupazione e rappresentasse un freno alla competitività delle imprese.

Nel 1994, gli economisti nordamericani David Card e Alan Krueger hanno dato avvio ad un cambiamento con la pubblicazione di uno studio che evidenziava un legame positivo tra l’aumento del salario minimo e la crescita dell’occupazione. Ma quasi tutti gli esperti ammettono oggi che è molto difficile determinare in modo inequivocabile quel legame, positivo o negativo, poiché gli effetti variano a seconda del paese, tanto più che ci si trova in un sistema economico sempre più aperto.

Nota piccante: oggi promosso dalla sinistra e dai sindacati, il salario minimo originariamente scaturì dai ranghi liberali, sottolinea Jean Batou, professore presso l’Istituto di storia economica e sociale dell’università di Losanna “L’idea non viene dai socialisti, bensì dagli economisti liberali che, nel 19° secolo, riconobbero l’incapacità del mercato di attribuire un valore minimo al lavoro. Per John Stuart Mill, ultimo dei grandi economisti liberali, l’introduzione di un salario minimo legale avrebbe dovuto permettere di rendere il lavoro sufficientemente attraente per i salariati”.

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La dura lotta attorno al costo del salario minimo

Questo contenuto è stato pubblicato al Il caso Reitzel illustra bene i dibattiti che precedono la votazione sull’introduzione di un salario minimo in Svizzera. In un articolo pubblicato a metà marzo da Le Matin, il produttore vodese di cetrioli afferma che l’accettazione dell’iniziativa sindacale avrebbe gravi conseguenze sulle sue attività. «In caso di sì, dovremo probabilmente sospendere alcune produzioni e procedere…

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L’eccezione elvetica

Nel 1894, la Nuova Zelanda, paese confrontato con una forte immigrazione europea, fu il primo Stato a introdurre un salario minimo legale. Questo si è poi generalizzato nei paesi sviluppati dopo la crisi degli anni 1930. Attualmente, in 21 dei 28 paesi dell’UE vi sono salari minimi stabiliti dalla legge. “Nei paesi che non hanno ancora un salario minimo legale interprofessionale, come la Germania, l’Italia e i Paesi scandinavi, i contratti collettivi di lavoro (CCL) coprono la maggior parte degli impieghi. Essi contengono anche precise disposizioni in termini di salari”, osserva Jean Batou.

Perché la Svizzera non ha seguito questo movimento? “Durante i ‘trenta gloriosi’ [gli anni di boom economico dopo la Seconda guerra mondiale fino alla crisi petrolifera del 1973], a causa della carenza di manodopera, i salari sono aumentati più velocemente che le rivendicazioni sindacali. La fede nella ‘eccezione svizzera’ era d’altronde profondamente radicata: si pensava che fosse possibile ottenere aumenti salariali senza lotta sindacale”, spiega Jean Batou.

Il professore dell’università di Losanna rileva inoltre che il movimento sindacale svizzero si è a lungo interessato prioritariamente ai lavoratori indigeni, di sesso maschile e qualificati. Attualmente costoro costituiscono una quota decrescente dei salariati, inversamente alle donne e agli immigrati poco qualificati attivi nella vendita, nei servizi personali (parrucchieri, estetisti, ecc.) o nel servizio della ristorazione e alberghiero, che sono settori poco sindacalizzati.

Da qui la necessità per i sindacati di proteggere tramite la legge questi nuovi lavoratori precari. Dopo vari tentativi a livello cantonale, di cui due con successo a Neuchâtel e nel Giura, i sindacati hanno lanciato un’iniziativa popolare per l’introduzione di un salario minimo a livello nazionale, che sarà sottoposta a votazione federale il 18 maggio.

A che livello?

La domanda è: a quale livello deve essere fissato il salario minimo? Troppo basso, non permette di lottare contro il dumping salariale. Troppo alto, impedisce a molte persone di entrare nel mercato del lavoro, poiché in tal caso le aziende preferiranno esternalizzare o automatizzare la loro produzione, afferma Stéphane Garelli. Con un salario minimo di 22 franchi all’ora, pari a circa 4’000 franchi al mese , come richiesto dall’iniziativa, “molte persone saranno lasciate fuori dalla porta”, prevede il professore di economia.

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Dal canto suo, Sergio Rossi è favorevole al principio di un salario minimo legale, soprattutto “per proteggere oltre il 50% dei lavoratori che non sono coperti da CCL in Svizzera”. Tuttavia, il professore di economia ritiene che l’iniziativa sia troppo rigida: “Si dovrebbe differenziare il salario minimo in base ai rami economici e alle regioni. Altrimenti nei settori a basso valore aggiunto, in cui la massa salariale è spesso poco flessibile, si rischia di spingere verso il basso gli altri stipendi”.

Per Jean Batou, l’apertura delle frontiere e l’accresciuta concorrenza tra i lavoratori giustificano l’introduzione di tale salario minimo legale. Sottolineando la “straordinaria crescita” della produttività del lavoro in Svizzera nel corso degli ultimi 10 anni (quasi del 50%), respinge l’idea secondo cui un salario minimo di 22 franchi all’ora sarebbe esagerato: “Visto dall’estero, può sembrare molto alto. Ma non è facile fare paragoni tra un paese e l’altro, siccome oneri sociali e costo della vita sono estremamente variabili. Per una maggioranza dei lavoratori che vive nelle grandi città svizzere, 4’000 franchi al mese bastano appena per vivere correttamente”.

L’iniziativa popolare sui salari minimi è stata depositata dall’Unione sindacale svizzera nel 2012, munita di 112’301 firme valide.

Chiede da un lato che la Confederazione e i Cantoni proteggano i salari in Svizzera e promuovano i salari minimi nei contratti collettivi di lavoro.

D’altro lato, esige l’introduzione di un salario minimo nazionale legale di 22 franchi all’ora. Il governo e la maggioranza del parlamento, composta dei partiti di destra e di centro, raccomandano di respingerla.

Per essere approvata, nella votazione del 18 maggio 2014 deve ottenere la doppia maggioranza di sì: dei votanti e dei cantoni.

(Traduzione dal francese: Sonia Fenazzi)

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