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Birmania: scoop su armi chimiche, reporter a lavori forzati

(Keystone-ATS) Cinque giornalisti birmani sono stati condannati oggi a dieci anni di reclusione e ai lavori forzati per il loro lavoro investigativo su una fabbrica di armi chimiche gestita dall’esercito. Il caso genera da un lato allarme sugli arsenali di Rangoon ed evidenzia dall’altro i limiti delle aperture democratiche degli ultimi anni del Paese, interpretate da molti come prova del “nuovo corso” di una Birmania uscita da mezzo secolo di dittatura militare.

I condannati sono quattro giovani reporter – tra i 22 e i 28 anni – che lavorano per la rivista Unity Weekly News, oltre al direttore della pubblicazione. Erano stati arrestati lo scorso febbraio per “violazione di proprietà privata” e “diffusione di segreti di stato”, in seguito alla loro inchiesta sull’impianto chimico che sorge a Pauk, nella regione centrale di Magwe, e che risulta utilizzato a scopi militari. I giudici hanno applicato una vecchia legge che risale al periodo della colonizzazione britannica; l’avvocato degli imputati ha già annunciato di voler ricorrere in appello.

Secondo l’articolo, la fabbrica – costruita su un terreno di oltre 1.200 ettari – è stata costruita da tecnici cinesi per conto di generali birmani. Lo stabilimento opererebbe su istruzioni dell’ex numero uno della giunta militare, il temuto generale Than Shwe, che nel 2011 ha lasciato il potere al nuovo governo civile guidato dall’ex generale Thein Sein.

La sentenza è stata criticata aspramente da parte delle organizzazioni per i diritti umani, dato che segna un passo indietro rispetto alle recenti aperture come l’abolizione della censura preventiva, l’apertura della stampa quotidiana ai privati e il rilascio di centinaia di prigionieri politici. David Mathieson, un ricercatore di Human Rights Watch, ha parlato di verdetto “scandalosamente severo, una punizione e intimidazione dei media birmani più che una vera giustizia”.

Altri campanelli d’allarme erano d’altronde già giunti nei mesi scorsi, con nuove restrizioni al regime dei visti per i giornalisti stranieri e il veto a nuovi ingressi imposto a una reporter di Time autrice di un reportage sull’odio anti-Islam che ha attecchito nel Paese, propagato anche da monaci buddisti.

Tre mesi fa, un giornalista birmano era stato inoltre condannato a un anno per aver “importunato” un funzionario che cercava di intervistare; è stato in seguito scarcerato, ma solo dopo una riduzione della pena in appello.

Alcuni progressi restano innegabili: se fino al 2010 fa pubblicare una foto della leader dell’opposizione Aung San Suu Kyi rimaneva tabù, ora la “Signora” siede in Parlamento e compare regolarmente sui media. Diversi argomenti rimangono però off-limits per i giornalisti locali, come la corruzione agli alti livelli, la repressione delle rivolte pro-democrazia in passato e – come evidenziano le condanne di oggi – gli affari dei militari. Molti analisti temono che la transizione del Paese verso la democrazia rimanga in effetti incompiuta, con una “democrazia disciplinata” dall’alto che continuerà a lasciare il potere nelle mani della vecchia guardia e di una classe di oligarchi a essa legata; la Costituzione continua ad assicurare il 25 per cento dei seggi in Parlamento ai militari.

Recentemente, la stessa Suu Kyi sembra aver perso fiducia nei propositi di cambiamento di Thein Sein, dopo che una commissione ha bocciato l’idea di emendare la Carta intervenendo sull’articolo che – in quanto vedova di uno straniero – non permette alla “Signora” di candidarsi alla presidenza nelle elezioni previste per il prossimo anno.

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