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Brexit: May a prova parlamento, si vota su divorzio

Theresa May alla prova del Parlamento sulla Brexit. KEYSTONE/EPA/JIM LO SCALZO sda-ats

(Keystone-ATS) Theresa May alla prova del Parlamento sulla Brexit.

È un dibattito fiume compresso in due giorni – fino al voto previsto domani alla Camera dei Comuni – l’ultimo ostacolo fra il governo conservatore britannico e l’avvio del negoziato formale di divorzio da Bruxelles a sette mesi dal referendum anti-Ue del 23 giugno scorso.

La schermaglia è partita oggi fra proclami di fedeltà al rispetto del volere popolare – evocato dall’esecutivo, ma anche dal maggior partito d’opposizione, il Labour – e ombre di ‘trabocchetti’ incrociati.

Costretto dalla Corte Suprema del regno a sottomettersi a un passaggio parlamentare preliminare che avrebbe volentieri evitato, il gabinetto May si è presentato in aula con un testo di legge stringatissimo: due capoversi appena, concepiti come un prendere o lasciare rivolto a deputati e lord affinchè autorizzino la premier e la sua compagine a notificare entro marzo l’articolo 50 del Trattato di Lisbona. Passo necessario e fatale per lo start alla procedura d’abbandono del club dei 28.

Le previsioni lasciano poco spazio a sorprese. Almeno a sorprese clamorose. Anche se Downing Street non nasconde il timore di colpi di mano o “imboscate” fra la selva dei possibili emendamenti. E ha ordinato ai ministri di presidiare i banchi sino a tarda ora. Difficile comunque un voto maggioritario in contraddizione con l’esito referendario: il gruppo Tory non può farlo per disciplina di partito e per rispetto degli umori prevalenti nel suo elettorato di riferimento; i laburisti, seppure assai più divisi, devono tener conto a loro volta del vincolo della consultazione di giugno e d’una base che in parte non irrilevante ha pure votato Leave. Mentre gli euroentusiasti Libdem non arrivano a 10 deputati e gli indipendentisti scozzesi dell’Snp guardano già oltre la battaglia di Westminster, immaginando – sebbene in un futuro ancora indeterminato – di poter magari riaprire il dossier della secessione da Londra.

Il ministro per la Brexit, David Davis, euroscettico storico, ha introdotto il botta e risposta quasi sfidando l’aula a tener presente “la volontà popolare” sancita dalle urne. Mentre il suo principale avversario, il ministro ombra laburista Keir Starmer, un ex procuratore schierato su posizioni moderate nel suo partito, ma leale in questa fase al leader radicale Jeremy Corbyn, si e’ richiamato al dovere “democratico” di non bloccare l’avvio del negoziato.

Una linea non condivisa da diverse decine di compagni di partito orientati a votare contro l’articolo 50 a dispetto del risultato referendario, ma che appare in grado di portare verso il si’ un numero di deputati più che sufficiente a blindare la maggioranza.

Coprendo abbondantemente le singole defezioni di conservatori filo-Ue come il veterano Kenneth Clarke: deciso a dire ‘no’ alla Brexit “secondo coscienza” – ha detto – nella ferrea convinzione che i referendum non abbiamo diritto di esistere “in nessun Paese ragionevole”.

I laburisti, per bocca di Starmer e Corbyn, sostengono tuttavia almeno un pugno di emendamenti (contro gli oltre 50 dell’Snp) per garantire i diritti dei lavoratori anche a Brexit attuata e lasciare se non altro uno spiraglio aperto a quel mercato unico che invece Theresa May si e’ dichiarata pronta ad abbandonare con tutta l’Unione (in barba alla City) in un recente discorso programmatico giocato sui toni della ‘hard Brexit’: ossia d’un taglio netto dall’Europa, condito dalla speranza (per alcuni l’illusione) di accordi commerciali favorevoli con altri partner globali. Primi fra tutti, gli Usa di Donald Trump.

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