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Thailandia: assedio al governo, 5 morti negli scontri

(Keystone-ATS) Doveva essere il “Giorno della vittoria finale” per i manifestanti anti-governativi a Bangkok. Ma dopo una notte di guerriglia con almeno cinque morti e una giornata di continue provocazioni alla polizia barricata a difesa del palazzo del governo – regolarmente respinte con lacrimogeni e cannoni d’acqua – il risultato annunciato alla vigilia non si è concretizzato. Con il primo ministro Yingluck Shinawatra portata in un luogo segreto, una tv statale in mano alla protesta e la popolazione della capitale invitata a rimanere a casa nella notte, la situazione è però ben lontana dall’essere “sotto controllo”, nonostante le dichiarazioni in tal senso del governo.

Le scaramucce con la polizia rischiano di continuare anche nella notte, data la presenza nelle strade di 20-30 mila manifestanti sparsi in diverse aree della città, aizzati da diversi leader della protesta contro le forze dell’ordine. Nel frattempo, è salito ad almeno cinque morti e oltre 50 feriti il bilancio della battaglia tra forze anti-governative e “camicie rosse” pro-governative avvenuta ieri sera nella zona di Ramkhamaeng, dalla parte opposta della capitale. Lì il clima da guerriglia urbana è continuato anche oggi, con un bus dato alle fiamme e strade presidiate da giovani nazionalisti armati di bastoni e spranghe.

Yingluck non si è fatta vedere da questa mattina, quando un gruppo di manifestanti ha fatto irruzione nel complesso dove era attesa. Le voci sulla sua assenza si sono rincorse per tutta la giornata, specie dopo la presa della tv pubblica Thai Pbs e il videomessaggio in diretta dell’ex vicepremier Suthep Thaugsuban, trasmesso anche da altre reti nazionali: dal leader della protesta non sono però giunti messaggi rivoluzionari. In serata, Suthep e Yingluck si sono incontrati per la prima volta dall’inizio delle proteste: davanti ai vertici militari, Suthep ha dato alla premier un ultimatum di due giorni per “restituire il potere al popolo”.

È evidente che entrambe le parti vogliono prendere tempo, di fronte a uno stallo sul campo e nell’impossibilità di trovare un compromesso. La partecipazione alla protesta, minore ora rispetto al picco di oltre 100 mila persone di domenica scorsa, non sembra sufficiente per un “colpo di stato del popolo”, come invocato dai suoi leader. Yingluck, accusata di essere un fantoccio del fratello ed ex premier Thaksin Shinawatra, difende il suo diritto di governare in quanto regolarmente (e trionfalmente) eletta nel 2011 grazie in particolare ai voti della classe medio-bassa rurale, e dall’inizio ha messo in chiaro di voler evitare una repressione violenta della protesta.

La lotta per il potere vede di fronte il blocco di Thaksin – rovesciato da un golpe nel 2006 e in auto-esilio dal 2008 per sfuggire a una condanna per corruzione – e l’élite burocratico-militare, sostenuta dalla classe medio-alta di Bangkok e dalla popolazione del sud, tradizionalmente più nazionalista e monarchica. La frustrazione di quest’ultima è ai limiti: da dodici anni, quando Thaksin salì al potere, ha visto i suoi referenti politici sconfitti in cinque elezioni. Per questo, invece di un nuovo voto, i manifestanti chiedono di fatto una sospensione della democrazia grazie a un governo nominato dall’alto.

Ma dietro alle richieste politiche, emergono divisioni sociali e geografiche apparentemente insanabili. Agli occhi dei manifestanti e del cittadino medio di Bangkok, il popoloso del nord-est è composto da bifolchi facilmente abbindolati dalle politiche populiste di Thaksin, e sospettati di simpatie repubblicane in un Paese dove la monarchia non può essere messa in discussione, pena le leggi di lesa maestà più severe al mondo. Con sullo sfondo l’inesorabile declino fisico di re Bhumibol Adulyadej (86 anni giovedì), sul trono dal 1946, la battaglia di Bangkok è vissuta sempre più come una lotta per il futuro della Thailandia.

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