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Video shock, afroamericano pestato e ucciso da agenti

Dimostranti chiedono giustizia per Ellis. KEYSTONE/AP/Ted S. Warren sda-ats

(Keystone-ATS) “I can’t breathe”, non respiro. Ancora una volta in America riecheggia la voce strozzata di un afroamericano che implora gli agenti, nell’ultimo disperato tentativo di rimanere aggrappato alla vita. Tutto inutile.

Manuel Ellis è morto poco dopo, riverso sul selciato dove era stato immobilizzato. Saranno le indagini a stabilire se il decesso è avvenuto per soffocamento o per i colpi inferti dai poliziotti che lo stavano arrestando.

L’episodio risale al 3 marzo e siamo a Tacoma, nello stato di Washington. Solo ora però spunta il video amatoriale ripreso col telefonino da una donna che con la sua auto si trovava per caso dietro quello della pattuglia di polizia, intervenuta non si sa ancora bene per quale motivo. La testimone racconta che all’inizio Ellis si era avvicinato all’auto degli agenti e che la conversazione appariva tranquilla. Poi, d’improvviso, il putiferio, quando un poliziotto ha aperto di scatto la portiera e ha scaraventato il giovane a terra.

A quel punto le immagini mostrano gli agenti accanirsi su Ellis in quello che appare come un vero e proprio pestaggio, con la donna che si sente urlare: “Basta, fermatevi, smettetela di colpirlo, arrestatelo e basta!”. Dalle comunicazioni tra gli agenti e la centrale, pubblicate sul sito Broadcastify, si sente prima un poliziotto suggerire ai colleghi di usare una tecnica di stretta con le gambe. Poi la preghiera di Ellis: “Non posso respirare”. A differenza di George Floyd, lui morirà sul posto.

Intanto si moltiplicano video e testimonianze di abusi sui manifestanti durante le grandi proteste che in questi giorni stanno incendiando l’America. Per il secondo week-end consecutivo in migliaia sono scesi in strada a New York, Denver, Los Angeles, Philadelphia, Seattle, Atlanta, Miami. E a Buffalo, dove i due agenti che hanno spinto a terra ferendolo gravemente un anziano manifestante dovranno rispondere del reato di aggressione.

Ma la più grande manifestazione è a Washington, dove attorno a una Casa Bianca blindata si sono date appuntamento decine di migliaia di persone (ma c’è chi parla di un milione), grazie al tam tam sui social media. “È una delle più grandi marce della storia della capitale”, spiegano le autorità cittadine. Una sfida al razzismo, alla polizia violenta ma anche a Donald Trump, costretto ad erigere un vero e proprio muro di barriere e recinzioni per difendersi dall’assedio e dalle contestazioni. Il presidente è furioso, sa che l’ondata di proteste e disordini sociali stanno gravemente compromettendo le sue chance di rielezione.

Ma con le sue esternazioni e i suoi tweet il tycoon finisce per alimentare polemiche e tensioni. Come quando, commentando il sorprendente boom dell’occupazione a maggio, davanti alle telecamere ha detto: “Oggi è un grande giorno per George Floyd. Lui ci guarda dal paradiso e sta lodando l’economia americana”. Parole che hanno scatenato l’ennesima bufera di critiche e l’ennesima ondata di indignazione, a cui Trump ha risposto: “Il mio piano contro il razzismo è un’economia forte”. “Spregevole”, il lapidario commento del suo rivale nella corsa delle presidenziali, Joe Biden.

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