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Uberizzazione per i lavoratori è un ritorno all’Ottocento, esperto

Secondo lo scrittore e docente francese Karim Amellal, la cosiddetta uberizzazione del mondo del lavoro rappresenta un ritorno a condizioni di impiego del XIX secolo. KEYSTONE/AP/RICHARD DREW sda-ats

(Keystone-ATS) Altro che gioioso modello dell’avvenire e della condivisione, la cosiddetta uberizzazione del mondo del lavoro rappresenta un ritorno a condizioni di impiego degne del 19esimo secolo, i tempi di Émile Zola: lo sostiene lo scrittore e docente francese Karim Amellal.

L’esperto punta il dito non tanto contro le imprese – da sempre alla ricerca del modo per generare profitti – quanto contro la totale assenza di una risposta politica.

L’uberizzazione – ricorda Amellal in un’intervista pubblicata oggi dal quotidiano ginevrino Le Courrier – permette di mettere direttamente in relazione un cliente e un fornitore di servizi attraverso un’applicazione o una piattaforma numerica.

Il settore dei taxi (dove appunto opera la multinazionale Uber che dà il nome al fenomeno, registrato peraltro anche dal vocabolario Treccani) e quello delle forniture sono gli esempi più emblematici, ma il modello è applicabile ovunque: dalle banche al diritto, passando per l’economia.

La tecnologia digitale stessa, che fra l’altro genera relativamente pochi posti di lavoro, non è un problema: sono le modalità di applicazione; che si tratti dei diritti dei lavoratori, del rispetto della legge o della fiscalità.

Secondo Amellal un lavoratore a cottimo dell’epoca dello scrittore Émile Zola (1840-1902) e un fattorino di Deliveroo di oggi godono di protezioni sociali all’incirca equivalenti.

Non hanno un contratto di lavoro e si assumono tutti i rischi che di solito spettano ai datori di lavoro: non hanno un’assicurazione contro la disoccupazione, nessun congedo per malattia, nessuna assicurazione contro gli infortuni, nessun congedo retribuito e non sono organizzati collettivamente in seno ai sindacati.

Amellal non mette però sul banco degli accusati solo le cosiddette “aziende predatrici”. “Il vero problema – spiega – è la mancanza di risposta da parte del regolatore”, vale a dire del mondo politico.

L’economia di condivisione si basa su una massa di persone non qualificate, spesso provenienti da contesti migratori o da quartieri svantaggiati. Costituisce un vero proletariato del 21esimo secolo, e il volume delle persone sfruttate non smette di aumentare”, conclude Amellal.

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