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Un collezionista di Ginevra al controverso museo di Chirac

Il ginevrino Jean-Paul Barbier, principale fornitore del museo di Jacques Chirac Keystone

Sarà inaugurato nel 2005 a Parigi il «Musée du Quai-Branly» per l'arte indigena, voluto dal presidente Jacques Chirac.

Questo contenuto è stato pubblicato il 15 gennaio 2003

Il collezionista ginevrino Jean-Paul Barbier ci guadagna, ma il professore André Langenay teme il saccheggio di siti archeologici.

Jacques Chirac ha una passione per i feticci. Così si chiamavano un tempo le antiche sculture di origine africana, oceanica e americana. Oggi vengono rispettosamente definite «arts premiers», come dire arte indigena o etnografica.

Monumento presidenziale

Poiché in Francia è usanza che i presidenti si facciano costruire i propri monumenti quando sono ancora in carica, ecco che attualmente sta sorgendo quello voluto da Jacques Chirac, ovvero il maggior museo d’arte indigena del mondo.

Ma il progetto del pomposo edificio in riva alla Senna non soddisfa tutti, perché sembra dare il colpo di grazia ad altri musei parigini, ricchi di tradizione. Come la sezione etnografica del «Musée de l’Homme», che deve fornire l’80 percento dei suoi reperti di arte indigena al nuovo museo di Chirac.

Razzie neocoloniali

Non è però la perdita della «sua» collezione a indisporre maggiormente il direttore André Langaney. «Gli acquisti per il nuovo museo hanno fatto salire alle stelle i prezzi per l’art premier.

E per soddisfare la crescente richiesta, bande di trafficanti internazionali organizzano vere e proprie razzie in Africa. Così interi siti archeologici vengono saccheggiati da banditi, che portano via tutto quanto può fruttare quattrini», si indigna Langaney, che è pure professor all’Università di Ginevra.

Il maggior fornitore privato del nuovo museo di Chirac è il multimilionario ginevrino Jean-Paul Barbier, proprietario di una delle più importanti collezioni private di arte indigena del mondo. Fin dall’inizio, gli acquirenti di Chirac si sono rivolti a Barbier, nelle cui casse è così confluita circa la metà del budget-acquisti del nuovo museo parigino.

Svendita del patrimonio culturale

Che il patrimonio culturale africano venga sempre più venduto in Europa non preoccupa Jean-Paul Barbier. Per il quale le collezioni degli europei hanno invece contribuito alla conservazione di molti oggetti d’arte. «Comperiamo soltanto in quei posti, dove gli oggetti antichi sono messi in vendita perché la gente non ci tiene più tanto. D’altronde, niente impedisce, per esempio, a un giapponese di comperare un antico armadio appenzellese decorato con pitture contadine. Insomma, si tratta di scambi culturali.»

Furti d’arte come «scambi culturali»

Quel che Barbier non dice: molte opere appartenenti a collezioni europee provengono da furti compiuti dai colonialisti di un tempo. E il lato brutto degli «scambi culturali» vantati da Jean-Paul Barbier lo si vede anche in quelle strade del Quartier Latin di Parigi, dove operano i mercanti di «art primitif», come viene anche definita l’arte indigena o etnografica. In questi ambienti, oggetti di dubbia provenienza vengono offerti ai commercianti privati da parte di trafficanti, che non apprezzano né le domande dei giornalisti, né tanto meno di essere filmati o fotografati.

Lista rossa

Anche il museo del Quai-Branly compera da commercianti privati. E si sa che tra gli oggetti acquistati ci sono anche parecchie sculture che figurano sulla lista rossa dell'UNESCO, sculture che sono state illegalmente trafugate dalla Nigeria. Per questo Lord Renfrew, un archeologo di Cambridge, reclama la restituzione di quella «merce di contrabbando, immessa sul mercato in seguito ai saccheggi».

Ciò nonostante, il ministro francese della cultura sottolinea l'importanza del nuovo museo, che «conferisce agli oggetti dell'art premier lo statuto di opere d'arte». Mentre finora, sottolinea il ministro, «nei nostri musei questi oggetti erano considerati soltanto alla stregua di reperti etnografici».

E questo è proprio quanto indispone maggiormente il professor André Langaney: «Gran parte degli oggetti d'arte indigena servivano per le cerimonie funebri. Immaginiamoci dunque che nel Congo venga aperto un museo europeo, nel quale fossero esposti, senza alcuna spiegazione, soltanto crocefissi tombali e vecchie lapidi. Una dimostrazione di cattivo gusto, diremmo noi. Ed è precisamente quanto vuole fare il nuovo museo al Quai-Branly.»

swissinfo, Peter Balzli
(traduzione: swissinfo, Fabio Mariani)

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