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Zugo: l’ora della follia

Un immagine del cordoglio: fiori e luci davanti al palazzo del governo di Zugo Keystone

Il 27 settembre un folle irrompe nell'edificio del Parlamento di Zugo. L'attentato provoca un bagno di sangue. Una prova per il rapporto tra le istituzioni e i cittadini.

Erano le 10.30, quando un individuo vestito da poliziotto è penetrato nel palazzo del Gran Consiglio di Zugo. Portava con sé un fucile d’assalto, un’arma automatica e dell’esplosivo. Una volta entrato nella sala dei deputati ha cominciato a sparare all’impazzata. Dopo decine di colpi esplosi, segue una detonazione, forse una bomba a mano.

Sono 14 i deputati e i membri del governo cantonale a perdere la vita. Altre dieci persone vengono portate negli ospedali della regione, in parte versano in gravi condizioni. Anche il folle si toglie la vita.

La drammatica notizia si diffonde in un attimo. La seduta delle Camere federali a Berna viene sospesa. Da tutto il paese e anche dall’estero arrivano le reazioni di cordoglio. Il bilancio di sangue è infatti senza precedenti nella storia delle istituzioni elvetiche. Ad essere colpita, oltre alle vittime, è quella immediatezza tutta svizzera di contatto e di apertura verso la vita pubblica.

Le misure di sicurezza davanti agli edifici pubblici vengono rinforzate. È una giornata nera per il paese, già scosso dagli eventi dell’11 settembre e dalla crisi di Swissair.

Un delitto pianificato

L’attentatore omicida, Friedrich Leibacher, aveva pianificato da settimane il suo gesto folle. È quanto è emerso dalle indagini. Già da anni infatti si cumulavano in lui i risentimenti, verso molti atti amministrativi che riteneva semplicemente delle ingiustizie.

“Questo tipo di violenza – ha spiegato a swissinfo lo psicologo Fulvio Lepore – non è da attribuire ad un fenomeno politico e sociale, malgrado la scelta dell’obbiettivo induca a pensarlo”. Il problema sta nel fatto che nessuno, negli ambienti più volte sollecitati da Leibacher, si sia accorto del potenziale violento del soggetto.

Da oltre vent’anni, il 57enne aveva infatti rapporti difficili con la giustizia. Dapprima una condanna per atti di libidine con minori, più avanti per atti osceni in pubblico. La sua carriera è cosparsa inoltre di delitti patrimoniali e di falso in documenti. Un altro caso notifica violenza in stato di ebrietà. Negli ultimi anni aveva soffocato di cause una dozzina di persone. In tutti i casi i tribunali – ripetutamente anche il Tribunale federale – gli hanno dato torto.

Un sito internet, gestito da Leibacher stesso, elencava per esteso tutte le sue querele con le istanze giudiziarie e gli uffici del cantone. Sulla pagina d’apertura primeggiava la foto del palazzo governativo, poi scena del suo raptus omicida. Dopo la strage, nell’automobile del folle viene trovata una lettera di rivendicazione. Annuncia una “giornata di furore per la mafia di Zugo”.

Malgrado la sua fedina penale fosse tutt’altro che pulita, Leibacher era inoltre riuscito a procurarsi, per vie perfettamente legali, un vero e proprio arsenale militare. Oltre al fucile d’ordinanza, l’omicida possedeva delle pistole, un’arma semiautomatica e delle bombe a mano.

Il terrorismo internazionale ha forse innescato il bisogno di vendetta, attraverso un meccanismo di emulazione. “Ma reazioni simili – precisa lo psicologo Lepore – sono frutto di situazioni paradossali cumulate nel tempo a cui il soggetto non riesce più a rispondere”. È dunque la somma delle frustrazioni alla base dell’esplosione sanguinaria.

Per Tiziano Balmelli, politologo all’Università di Friborgo, il caso è da ritenersi isolato. Lo si può ricondurre ad altri drammi privati consumatisi negli scorsi anni. Fra questi il caso tristemente famoso di Zurigo, dove un impiegato aveva rivolto la pistola contro i colleghi d’ufficio, provocando più vittime.

Eppure il dramma del parlamento ha travolto tutta la popolazione di Zugo. Nel piccolo cantone ci si conosce, si è vicini di casa. Quindici morti sono un terribile bilancio difficile da elaborare.

La ricerca di sicurezza

Nei giorni seguenti al drammatico episodio, davanti all’edificio governativo, un flusso ininterrotto di persone si è soffermato per rendere omaggio alle vittime. Bandiere a mezz’asta in tutto il paese e una grande partecipazione emotiva hanno accompagnato le esequie.

Il portavoce del Consiglio federale, Achille Casanova, ha affermato, immediatamente dopo il fatto, che “la tragedia di Zugo dovrebbe incitarci tutti a dare maggior prova di solidarietà verso il prossimo e ad accordare più attenzione alle preoccupazioni e alle difficoltà degli altri”.

La Svizzera è scossa. E ovunque la sicurezza davanti agli edifici pubblici è rinforzata. Si teme però che questo porti ad una separazione dello stato dagli abitanti. Il ricercatore dell’Università di Ginevra Gianni Matteo sottolinea: “La prossimità fra il cittadino e il sistema politico ha un ruolo centrale nella cultura politica svizzera. Su questa vicinanza si basano parecchi miti fondatori della struttura politica svizzera”. Un cambiamento minerebbe alla base il sistema.

Per Tiziano Balmelli la situazione non è tanto drammatica da imporre un ripensamento del sistema istituzionale: “La Svizzera non diventerà un Paese basco, dove i politici locali rischiano quotidianamente la vita”.

Le risposte al dramma

Piuttosto il caso Leibacher non ha fatto che confermare l’esistenza di realtà sommerse, forse marginali, ma che necessitano di più attenzione. L’insoddisfazione verso lo stato esiste: la Svizzera non è un’isola felice priva di contrasti.

Da anni esistono delle organizzazioni che si propongono come catalizzatori del malessere. Uniscono chi si sente trattato ingiustamente dallo stato. Il gruppo romando “Appel au peuple”, per esempio, si propone come paladino delle vittime “di abusi di potere e di manipolazioni” da parte degli uffici pubblici e della magistratura. Denunciare gli abusi, perpetrati a danno di innocenti, è il traguardo dichiarato sul sito internet omonimo. Gruppi di questo genere ce ne sono molti in Svizzera, anche se il fenomeno è rimasto a lungo in ombra.

I poliziotti all’entrata degli edifici pubblici non servono dunque a far fronte al fenomeno. Lo confermano anche le società di sorveglianza private che non registrano una crescita esponenziale delle richieste di protezione. Dai Grigioni a Ginevra si studiano piuttosto delle misure d’intervento e si verificano le strutture esistenti per evitare ulteriori fenomeni di giustizia privata.

Nel canton Lucerna si è già stilata una lista di 87 cittadini che si sono fatti notare ripetutamente presso gli uffici pubblici e i tribunali. Dove il servizio non esiste già, si riflette sull’importanza di uno sportello indipendente, a cui rivolgersi in caso di incomunicabilità fra le parti. Se prima l’istituzione di figure di mediazione veniva scartata per ragioni finanziarie, adesso c’è maggiore disponibilità.

Anche l’amministrazione federale vaglia la creazione della figura dell’ombudsman. La cancelleria è arrivata alla conclusione che il difensore civico, contribuirebbe a riconoscere “tempestivamente i casi particolarmente delicati e diminuire così il rischio di provocare drammi”.

Daniele Papacella

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