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Manicomi chiusi da 40 anni “ma le risorse sono poche”

Il 13 maggio di quarant’anni fa l’Italia si dotava di una legge per dire addio ai manicomi.

Era il 1978, lo psichiatra Franco Basaglia aveva già da tempo aperto le porte degli ospedali psichiatrici di Gorizia e di Trieste da lui gestiti, e la legge 180Collegamento esterno obbligava tutti gli altri a muoversi nella stessa direzione.

Oggi i manicomi non esistono più, ma non tutto funziona alla perfezione. I pazienti assistiti dai servizi specialistici nel corso del 2016 sono 807.035Collegamento esterno, un dato che rappresenta circa l’1,5% della popolazione. Eppure si stima che a soffrire di disagio mentale, anche lieve, sia il 20% degli italiani. “Significa che buona parte delle persone non si rivolge ai Dipartimenti di salute mentale (DSM), cioè l’insieme delle strutture e dei servizi. Forse per non sentirsi matti, forse perché non siamo abbastanza attrattivi”, commenta Enrico Zanalda, direttore Dsm Asl Torino 3.

L’organizzazione oggi 

Oltre ai servizi ospedalieri, i cosiddetti repartini – ovvero le aree degli ospedali dove avviene il ricovero -, l’assistenza psichiatrica italiana è divisa in tre tipologie: quella territoriale, basata sui Centri di salute mentale (CSM) che coordinano tutti gli interventi, dalle attività di tipo ambulatoriale fino al reperimento di alloggi dove i pazienti possano soggiornare in autonomia alla fine della terapia; quella residenzialeCollegamento esterno, cioè extra-ospedaliera ma non abitativa come le case di cura e le comunità; e quella semiresidenziale, come i centri diurni, dove cioè si svolgono attività di risocializzazione durante il giorno.

Un meccanismo complesso, che deve fare i conti con alcune criticità, a cominciare dalla necessità di aggiornarsi: “Finora i DSM sono stati un luogo in cui i pazienti vengono accolti allo stesso modo, seguendo passaggi uguali per tutti – spiega Giorgio Gallino, direttore della rete Ospedale Territorio Psichiatria della Asl Torino sud-est -. Tutti gli altri servizi sanitari tendono invece a organizzarsi in maniera più specialistica”.

L’ex manicomio di Collegno tvsvizzera

Le patologie variano molto, dalla schizofrenia (oltre il 30% dei pazienti) ai disturbi della personalità (10%), fino a depressione, ritardo mentale, disturbi da abuso di sostanze o del comportamento alimentare. “Sono pazienti diversi che hanno bisogno di risposte differenti, altrimenti rischiamo che le soluzioni siano meno efficaci”.

Non è però soltanto un problema di organizzazione delle cure: per Gallino le risorse a disposizione dei DSM sono poche. “Il costo di una degenza in una casa di cura viaggia intorno ai 4500 euro al mese, simile alle comunità, mentre i gruppi appartamento dove vivono al massimo 5 persone oscillano tra i 55 e 100 euro al giorno”. Nel 2016, come già nel 2015Collegamento esterno, la spesa complessiva per l’assistenza psicologica è stata poco più di 3 miliardi e mezzo di euro.

Anche su questo punto Gallino è critico: “La residenzialità (come le case di cura e le comunità, ndr) segue il 5% appena dei pazienti ma rappresenta il 50% dei costi. Saremmo capaci di assistere più persone se si potessero spostare parte delle risorse dalla residenzialità verso la domiciliarità”, cioè la permanenza nella propria casa, con i pazienti ugualmente seguiti e tutelati dai servizi sanitari. 

Un’eventualità che consentirebbe anche di scongiurare il rischio che “un paziente venga dimenticato nel passaggio dall’assistenza dal settore pubblico (durante i primi momenti di cura, ndr) al privato, che spesso si occupa della gestione di case di cura e comunità”. 

Tutti a rischio malattia 

Ma il discorso sulla salute mentale oggi non può riguardare soltanto la cura. Serve un lavoro di prevenzione, avverte Alberto Taverna, psicologo del Dsm dell’Asl Città di Torino, secondo cui “gli esiti psichiatrici sono legati alla sovrastruttura economica in cui si vive”. Tradotto, quello che accade nel mondo di tutti i giorni influisce sul benessere psicologico.

L’estenuante e spesso fallimentare ricerca di un lavoro, per esempio, potrebbe essere un fattore scatenante del disordine psichico. “Lo sviluppo della società post-capitalista tende a spingere fuori dal mercato del lavoro persone con difficoltà a reggere l’elevata competizione, ma non per questo inadatte a lavorare” conclude Taverna.

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