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Ricordando la strage di Capaci

Sono passati quasi 25 anni da quando il giudice Giovanni Falcone venne ucciso dalla bomba che squarciò l'autostrada lungo la quale viaggiava. In questo articolo ricordiamo la strage di Capaci attraverso le voci delle persone vicine al magistrato, ma anche quelle di chi, quel giorno, era “dall’altra parte”, e partecipò all’organizzazione dell’attentato che scosse l’Italia intera.

L’identikit di Matteo Messina Denaro, ritenuto l’attuale capo di Cosa nostra e uno dei mandanti degli attentati di Capaci e di Via d’Amelio, dove venne ucciso il giudice Paolo Borsellino. Il processo al boss latitante, che dovrà rispondere dell’accusa di strage, comincerà il 13 marzo alla Corte d’Assise di Caltanissetta. Keystone

“Era un uomo riservato, con una religione del dovere che portò avanti per tutta la vita… Aveva un grande rispetto per lo Stato e per le istituzioni democratiche”.  Maria Falcone ricorda così il fratello, il giudice Giovanni Falcone morto il 23 maggio 1992 quando un’esplosione sventrò parte dell’autostrada Palermo-Mazara del Vallo, all’altezza di Capaci. Il cratere inghiottì la vita del giudice, quella della moglie Francesca Morvillo e dei tre agenti di scorta, Rocco Dicillo, Vito Schifani e Antonio Montinaro. 

“La mano armata di Cosa Nostra è stata perseguita ma per l’altra pista, quella che avrebbe portato ai soggetti cointeressati alla morte di Giovanni non è stato ancora fatto niente…”. E sono passati 25 anni. 

Non si seppe mai chi, eppure qualcuno informò Cosa Nostra della partenza del giudice. Qualcuno tradì Falcone e lo consegnò alla morte, per mano della mafia. Bastò una telefonata per avvisare i sicari dell’imminente arrivo del magistrato allo svincolo di Capaci. E non può che far rabbrividire sapere che sull’aereo su cui Falcone aveva viaggiato quel sabato di 25 anni fa vi erano noti politici, “grandi elettori” che si erano recati nella Capitale per l’elezione del Presidente della Repubblica. Persino uno che, tre anni dopo, fu incriminato per associazione a delinquere di stampo mafioso. Mentre le tre Croma viaggiavano sull’autostrada, un’altra auto li seguiva, su una strada parallela. A bordo c’era Gioacchino La Barbera, mafioso di Altofonte. Fu lui a dare il segnale.

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Gioacchino La Barbera lo conferma: l’autostrada A29 nel momento della strage era sorvolata da un misterioso aereo. Da un velivolo segnalato dal traffico della torre di controllo di Punta Raisi, ma mai individuato.

Mentre il tratto di autostrada fatto saltare in aria dal commando di Cosa Nostra era stato ristrutturato poco tempo prima dalla ditta di Andrea Di Matteo, l’imprenditore cugino del padre di Mario Santo Di Matteo, anche lui killer di Capaci.

A Santo Di Matteo, detto “Mezzanasca”, gli uomini della Dia arrivarono ricostruendo i movimenti di Gioacchino La Barbera e del suo complice e amico Antonino Gioè. Mezzanasca finì in manette il 4 giugno del 1993 e nella notte tra il 23 e il 24 ottobre di quello stesso anno firmò il suo primo verbale da collaboratore. Ma firmò anche la condanna a morte del figlio Giuseppe strangolato e sciolto nell’acido dopo oltre due anni di prigionia.

“Lo sequestrarono per mettermi a tacere –  ci dice Santo Di Matteo – Ma sapevo che una volta preso non sarebbe più tornato indietro”.

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Giuseppe Costanza è sopravvissuto all’esplosione che investì la Croma bianca con a bordo Giovanni Falcone e Francesca Morvillo. Avrebbe dovuto guidare l’auto del giudice quel sabato di 25 anni fa, ma era sul sedile posteriore: “Il dottor Falcone preferiva mettersi al volante tutte le volte che in auto c’era sua moglie Francesca… Mi sono risvegliato giorni dopo in ospedale”.  Costanza è stato l’autista di Falcone negli ultimi otto anni di vita del magistrato, dal 1984 fino al 1992: “Una settimana prima della strage mi disse soddisfatto: ‘Sarò il procuratore nazionale antimafia’… sono sicuro che la sua morte è legata a quella nomina”.

 
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L’auto si schiantò contro la barriera di cemento e detriti che s’era innalzata a seguito della deflagrazione.  Falcone morì alle 19:05, dopo essere stato trasportato all’ospedale Civico di Palermo, a causa delle emorragie interne riportate, Francesca Morvillo intorno alle 22:00.  In quell’ospedale arrivò anche Giovanni Paparcuri, l´autista sopravvissuto a un’altra strage, quella che costò la vita al giudice Rocco Chinnici, e che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino vollero accanto, nel 1985, per informatizzare il maxiprocesso.

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Ciò che resta oggi è il ricordo. La memoria, la commozione. Ma soprattutto l’urgenza di verità, l’unica, su chi usò Totò Riina per mettere a segno “l’attentatuni”, la strage eclatante che avrebbe fermato la corsa al Quirinale di Andreotti. E stoppato le indagini di un fastidioso magistrato. Perché a distanza di 25 anni i nomi dei responsabili, dei mandanti occulti della strage di Capaci non ci sono ancora.

 

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