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Il “metodo” Gentiloni e i pretoriani di Renzi

Il neo premier italiano Claudio Gentiloni Keystone

"Gentiloni who?", Gentiloni chi? Per anni uno sconosciuto. Oggi capo di governo di quella che nonostante tutto rimane l'ottava potenza industriale al mondo, l'Italia. Per quello che ci si aspetta dal suo esecutivo, un profilo quasi perfetto. 

Per nulla incline al protagonismo, quanto basta per non togliere “luce” ai protagonisti della disputa politica, perennemente in campagna elettorale. Apprezzato per la capacità di mediazione, e ne dovrà spendere parecchia per realizzare quel paio di riforme che deve realizzare, in primis la nuova e armonizzata legge elettorale. Indole inclusiva, dopo i mille giorni di un renzismo portato invece ad approfondire i solchi con i nemici interni al partito. Ma attenti, dice chi lo conosce meglio di altri, l’uomo si muove con stile felpato, moroteo, elusivo quanto basta per evitare lo scontro aperto, senza perdere di vista la sostanza. “Per dire che uno è sciocco può impiegarci anche una trentina di minuti e di giro di parole, ma alla fine colpisce con stile”, afferma Ermete Realacci, l’ “anima verde” del PD, che lo frequenta da un paio di decenni.

Questo è Paolo Gentiloni, il premier che Renzi (più di Mattarella) ha voluto nel governo “fotocopia”. Marchigiano con blasone nobiliare e antenati che hanno avuto ruoli importanti prima e dopo lo Stato Pontificio. Uno di loro, Ottorino, è ricordato come l’ispiratore di quel “Patto Gentiloni” che all’inizio del secolo scorso consentì la rappacificazione fra Vaticano e Stato italiano per il ritorno dei cattolici alle urne. Quindi, mediazione praticamente scolpito nel DNA. Equilibrato, anche nell’abbracciare gli ideali “rivoluzionari” negli anni del Movimento studentesco. Fuggì a Milano (parlò dal palco dopo l’intervento di un certo Mario Capanna, e non fu proprio un trionfo), ma prima di allontanarsi segretamente da casa avvisò il consigliere spirituale dei genitori, per evitare che la famiglia si preoccupasse troppo.

Quindi, un esordio politico significativo. Non gli bastò il pubblico appoggio dei capifila del centro-sinistra per fare un buon risultato in una primaria del centro-sinistra per la conquista del Comune di Roma. È un “Rutelli boy”, l’ex sindaco della capitale che lo volle assessore in vista dell’Anno Santo del Duemila, organizzativamente un successo. Cofondatore della Margherita (una delle componenti dell’Ulivo), travolta nel 2012 a causa del tesoriere, tale Luigi Lusi, che aveva fatto sparire ben tredici milioni di euro dalle casse del partito. Margherita assolta, ma finita.

Risultato: Rutelli fuori dal recinto politico, e lui, Paolo Gentiloni, che in quel recinto invece ci rimane, mantenendo un bassissimo profilo, facendosi apprezzare per la mancanza di pubbliche ambizioni, ma soprattutto per la tranquilla lealtà a Renzi. Che per questo oggi gli affida il governo a termine, contando sul fatto che poi si toglierà tranquillamente dalla scena. Un premier di transizione, stretto fra due renziani di ferro, Luca Lotti, per il quale è stato re-inventato il ministero dello sport, e soprattutto Maria Elena Boschi, praticamente promossa numero due di Palazzo Chigi nonostante il ceffone del referendum che porta la sua firma. Ma attenti. Non è detto che si piegherà ai diktat dei pretoriani che il suo predecessore gli ha messo alle costole. Non è il caso di sottovalutare il “metodo Gentiloni”.

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