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Il lavoro condiviso, una soluzione vincente

Cedric Wermuth e Mattea Meyer, i due co presidenti del partito socialista svizzero
Mattea Meyer e Cedric Wermuth dirigono in jobsharing il Partito socialista svizzero dall'ottobre 2020. Keystone / Peter Klaunzer

Il lavoro a tempo parziale è stato da tempo ampiamente sdoganato e non è più una prerogativa quasi esclusivamente femminile. In numeri, la Svizzera è seconda solo all’Olanda mentre il part-time fa ancora fatica ad imporsi in Italia. E per chi lavora meno, ma non rinuncia alle responsabilità, sta prendendo piede il lavoro condiviso, meglio conosciuto come “jobsharing”. 

L’occupazione a tempo parziale è cresciuta considerevolmente in Svizzera e in alcuni paesi europei. Uno sviluppo dovuto a una maggiore partecipazione nel mercato del lavoro di alcuni gruppi di popolazione tradizionalmente meno presenti, come le donne con bambini, e al desiderio delle persone (uomini e donne) di avere un migliore equilibrio tra lavoro e vita familiare.

“Il lavoro a tempo parziale è un lavoro femminile”. Sindacato Unia

Nonostante sempre più uomini scelgano il lavoro part-time, “il lavoro a tempo parziale è un lavoro femminile”, scrive il sindacato UniaCollegamento esterno. Le statistiche indicano infatti che oltre un milione di donne lavorano a tempo parziale a fronte di poco più di 400’000 uomini. Inoltre, mentre le donne occupate a tempo pieno sono il 41%, la percentuale sale all’81% tra gli uomini.

Il problema è che spesso il lavoro a tempo parziale è sinonimo di precariato, contratti di lavoro a tempo determinato, orari di lavoro irregolari e copertura sociale carente. Inoltre, come sottolinea sempre il sindacato Unia, “questa realtà lavorativa ostacola le carriere delle donne e scoraggia gli uomini dalla scelta di un lavoro a tempo parziale”.

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Il pericolo è stato segnalato anche da uno studio dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico OCSECollegamento esterno: “Il lavoro a tempo parziale rimane svantaggioso in termini di retribuzione, sicurezza del lavoro, formazione e promozione. Inoltre, i lavoratori part-time affrontano un rischio maggiore di povertà rispetto alle loro controparti a tempo”.

I vantaggi superano comunque gli svantaggi, ammette l’OCSE, poiché il lavoro a tempo parziale permette “un migliore equilibrio tra lavoro e vita familiare e offrendo migliori condizioni in termini di salute e sicurezza sul lavoro”.

Perché le aziende italiane non amano il part-time

Uno studio del 2019 dell’Università e del Politecnico di Torino condotto dai professori Francesco Devicienti, Elena Grinza e Davide Vannoni, riassunto in un articolo “Perché le aziende non amano il part-time?Collegamento esterno” osserva che il lavoro part-time in Italia è meno produttivo ed è pagato di più. Per questo motivo le imprese non concedono facilmente contratti part-time a chi li richiede. L’Italia nel confronto con i maggior paesi europei ha una percentuale di lavoratori part-time decisamente più bassa ma simile alla media dell’Unione europea.

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Le spiegazioni del perché in Italia il lavoro a tempo parziale non piace ai datori di lavoro sono molteplici, ma secondo gli studiosi, “sono sostanzialmente riconducibili a due fattori: uno è collegato all’effetto del tempo parziale sulla produttività, l’altra all’effetto sul costo del lavoro”.

Cosa significa tutto ciò? “Da un lato il part-time potrebbe causare inefficienze di coordinamento e comunicazione all’interno delle aziende, oppure una riduzione della produttività individuale del lavoratore dovuta a quelli che in letteratura sono chiamati ‘start-up costs’ ovvero la prima mezz’ora della giornata persa prima di iniziare a ‘carburare’. Inoltre, il part-time potrebbe anche essere associato a maggiori costi. È ampiamente riconosciuto – dicono sempre gli autori dello studio – che impiegare lavoratori part-time aumenta i costi fissi del lavoro, cioè quelli non legati al numero di ore lavorate ma al numero di lavoratori, per esempio, costi di reclutamento e formazione”.

Le conclusioni a cui giungono i ricercatori italiani, sembrano però essere almeno in parte smentite dalla classifica mondiale sulla competitività economica: ai primi cinque posti ci sono Svizzera (terza) e Olanda (quarta), i due paesi che puntano maggiormente sul lavoro a tempo parziale in Europa. L’Italia figura al 44esimo posto (la classifica completa la potete trovare sul sito dellIMD World Competitiveness CenterCollegamento esterno).

Il lavoro condiviso, ovvero il jobsharing

Come visto, il lavoro a tempo parziale è una realtà consolidata per le imprese svizzere e non intacca la loro competitività. In materia di organizzazione del lavoro però, un ‘nuovo modello’ si sta sviluppando: il jobsharingCollegamento esterno. Concretamente si tratta di un posto a tempo pieno occupato generalmente da due impiegati (anche tre) che si suddividono i compiti e le responsabilità. Questo modello si inserisce nell’universo del tempo parziale, pur non essendone un sinonimo ma piuttosto una forma specifica.

“Questo modello si inserisce nell’universo del tempo parziale: non è però sinonimo di tempo parziale ma ne è piuttosto una forma specifica”. Danuscia Tschudi, ricercatrice Supsi

In Italia è stato introdotto dalla ‘legge Biaggi’ nel 2003 ed è stato successivamente abrogato dal ‘Jobs Act’ nel 2015. In Svizzera non è regolamentato in modo rigido, si tratta prevalentemente di un contratto individuale con convezione che certifica la condivisione del ruolo.

Il concetto, che è nato negli Stati Uniti negli anni ’80, ha già sedotto il 27% dei datori di lavoro svizzeri, secondo uno studio della Scuola universitaria della Svizzera nordoccidentale, “Travail à temps partiel et jobsharing en SuisseCollegamento esterno”. Si tratta dello studio più attuale e completo sul tema.

Come ci spiega Danuscia Tschudi, ricercatrice del Centro competenze lavoro, Welfare e società del Dipartimento economia aziendale, sanità e sociale della Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana, “potenzialmente il jobsharing è aperto a tutte le professioni e a tutti i ruoli. Diventa però particolarmente interessante per quelle professioni che richiedono una elevata componente relazionale e che necessitano di una continuità nelle relazioni, come nel caso del medico con il paziente, l’operatore sociale con l’utente e il docente con lo studente”. 

Part-time ma con ruoli di responsabilità

Il jobsharing è un modello di lavoro interessante per accedere a posizioni di responsabilità pur lavorando a tempo parziale. “La letteratura scientifica – chiarisce ancora Danuscia Tschudi – dice che chi lavora meno del 70% non può ambire a un ruolo di responsabilità. Il jobsharing in questo caso è una soluzione. Inoltre, permette ai professionisti che non vogliono lasciare completamente il ‘lavoro sul terreno’ di guidare un gruppo pur continuando il proprio lavoro pratico”.

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Ma chi condivide il proprio lavoro? “Non è strettamente necessario che le due o tre persone si conoscano bene prima di condividere il lavoro. Certo conoscersi può facilitare il compito. È più importante invece condividere i valori della professione, la filosofia dell’approccio al lavoro. Aperto a tutti sì – aggiunge Danuscia Tschudi – ma è soprattutto adatto alle persone che hanno facilità a lavorare in un gruppo e non hanno difficoltà a mettersi in discussione”. 

“Il jobsharing permette di accedere a posti di responsabilità che non sarebbero possibili con una percentuale di lavoro bassa” Danuscia Tschudi, ricercatrice Supsi

Danuscia Tschudi aggiunge poi che “il jobsharing non è ancora molto conosciuto e spesso è travisato, ma l’esempio del Partito socialista svizzero che ha scelto a ottobre una copresidenza (eletti Cedric Wermuth e Mattea Meyer che lavoreranno in jobsharing. Prima del Ps anche i Verdi hanno avuto una copresidenza, ndr.) aiuta certamente a diffondere, o almeno a far conoscere, questo modello di lavoro”.

Secondo i dati dello studio della Scuola universitaria della Svizzera nordoccidentale, il 90% delle coppie che condividono il lavoro sono donne. L’8% sono uomo e donna e solo il 2% sono due uomini.

Come interpretare questi dati? Ancora Danuscia Tschudi: “Questo modello di lavoro coinvolge maggiormente le donne perché sono soprattutto loro che lavorano a tempo parziale. Quando nasce un figlio, normalmente l’uomo aumenta il lavoro e la donna lo diminuisce perché il lavoro di accudimento è soprattutto ancora un compito femminile”.

Il jobsharing non serve però unicamente per conciliare lavoro-famiglia, ma anche per conciliare lavoro-formazione, lavoro-hobby, lavoro-carriera.

Vantaggi per lavoratori e imprese

Secondo Danuscia Tschudi i vantaggi per i lavoratori sono tanti: “Oltre ad articolare meglio il lavoro con altri impegni che siano famigliari, hobby o altre esperienze professionali, con il lavoro condiviso si può accedere a posti di responsabilità che non sarebbero possibili con una percentuale di lavoro bassa. Da ultimo, il jobsharing permette di diversificare il lavoro: si può condurre un gruppo e lavorare ancora sul terreno”.

Il settore pubblico (45.5%) è più favorevole al lavoro condiviso rispetto al settore privato (24.8%).

Sempre secondo lo studio della Scuola universitaria della Svizzera nordoccidentale, in Ticino e in Svizzera francese le aziende aperte al jobsharing sono circa il 20% mentre in Svizzera tedesca sono il 30%. Più le aziende sono grandi più la condivisione del lavoro è ampia. Delle aziende con meno di 100 impiegati il 24% prevede il jobsharing, percentuale che sale al 44% nelle aziende con più di mille impiegati. Il settore pubblico (45.5%) è inoltre più propenso al lavoro condiviso rispetto al settore privato (24.8%).

Per il datore di lavoro, quali sono i vantaggi? “Non si perdono le competenze e si mantengono in azienda profili interessanti che per vari motivi si perderebbero. Penso ad esempio alla maternità. Due persone invece di una significa anche più contatti, più competenze, più idee. È vero che per il datore di lavoro si tratta di investire nell’organizzazione del lavoro”.

Il lavoro condiviso consente insomma ai datori di lavoro da un lato di attirare collaboratori interessati ad una maggiore flessibilità e autonomia di gestione del proprio lavoro e ad un miglior equilibrio tra vita professionale e vita privata e dall’altro di trattenere collaboratori molto qualificati, che desiderano ridurre il tempo di lavoro per coniugare lavoro e famiglia ma anche lavoro e perfezionamento, lavoro e attività di ricerca, lavoro di responsabilità condiviso in jobsharing e lavoro sul terreno. Sembra davvero una situazione win-win.

Particolarmente adatto ad adottare il modello di jobsharing è il settore ospedaliero. Un gruppo di ricercatori e ricercatrici del Dipartimento economia aziendale, sanità e sociale (DEASS) della Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (SUPSI), diretto da Danuscia Tschudi, ha infatti realizzato la ricerca Jobsharing: un’opportunità organizzativa per la gestione del tempo di lavoro in ospedale. Il progetto è stato realizzato con il partenariato dell’Ente Ospedaliero cantonale e ha beneficiato del finanziamento del fondo per le pari opportunità nelle SUP della Segreteria di Stato per la formazione, la ricerca e l’innovazione.

Nel video l’esempio dell’Ospedale Beata Vergine di Mendrisio:



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