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Alla ricerca dei villaggi scomparsi d’Insubria

Soppiantati da nuove aree urbane, o ridiventati terreno rurale o boschivo, sono decine i centri abitati insubri che non esistono più. Uno studioso del territorio ha ripreso a cercarli, quasi un secolo dopo l'ultima indagine.

Non sono come le città-fantasma del Novecento, disabitate ma ancora lì, con i loro edifici e una storia recente.

I ‘Paesi scomparsi d’Insubria’ (di Matteo ColaoneCollegamento esterno, Ritter Edizioni) sono stati abbandonati nel Medioevo e spesso se ne ha traccia solo nei documenti notarili o nella tradizione orale. Raramente nelle mappe.

Guardando la Pianura Padana, peraltro, ci si immaginerebbe uno sviluppo urbano ininterrotto. Invece no: la regione compresa tra i fiumi Ticino e Adda conta 84 ‘wüstungen’ attestate e “ce ne potrebbero essere centinaia”, precisa l’autore.

Perché ‘wüstung’  

WüstungCollegamento esterno (letteralmente: desertificazione) si può tradurre con ‘diserzione’ intesa come l’atto di abbandonare un luogo lasciandolo perlopiù deserto (disertare).

Il termine tedesco si è imposto poiché gli studi scientifici sull’evoluzione, la selezione, l’abbandono e la rifondazione degli insediamenti si sono sviluppati dapprima (o più che altrove) in area germanofona.

Nella stessa Italia, alcune indagini nel Meridione e nelle regioni del Centro furono effettuate da stranieri, prima che la materia appassionasse ricercatori locali e anche al Nord.

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Di 96 insediamenti contemplati dal libro, 20 sorgono in quello che al tempo medievale era conosciuto come Seprio e oggi è in parte territorio elvetico. Una fortuna per Tremona-CastelloCollegamento esterno, sostiene Colaone, che “grazie al lavoro fatto dall’archeologia svizzera” è “uno dei pochi villaggi scomparsi dell’Insubria attualmente visitabili”.

Perché disertati

La mente corre subito ad attacchi bellici che in effetti, conferma lo studioso, sono in Europa una causa comune di abbandono degli insediamenti.

Per quanto riguarda l’Insubria, tuttavia, le “aggressioni” sono da ricercare soprattutto nel mercato fondiario (acquisto da parte di grandi proprietari) e negli eventi naturali. I dissesti idrogeologici, per esempio, sono stati determinanti soprattutto nella zona prossima a Milano.

Il lavoro di Matteo Colaone (Castellanza, 1979) ha origine dal suo attaccamento al territorio. Agronomo di formazione, tecnologo alimentare, Colaone è uno studioso del patrimonio storico, ecologico e identitario dell’Insubria. Il libro censisce:

  • 96 insediamenti (ritenuti scomparsi)
  • 84 storicamente attestati e scomparsi
  • 28 di posizione individuata ma incerta
  • 18 di posizione topografica certa
  • 4 certa e con indagini archeologiche

Più in generale, e in tutto il Vecchio continente, difficilmente la diserzione di un villaggio ha un’unica ragione, e la ricerca delle concause richiede un approccio interdisciplinare.

Una ricerca interrotta

Così come l’Italia è in ritardo rispetto a Germania, Regno Unito e Francia, la Lombardia è stata regione poco indagata finora. Dopo un indice di luoghi abitati “che cambiarono nome o più non esistono”, compilato dal filologo Giuseppe Cossa nel 1851, ci fu lo studio del farmacista Carlo Massimo Rota negli anni Venti (“Paesi del Milanese scomparsi o distrutti”).

Del lavoro di quest’ultimo, il libro di Matteo Colaone è un seguito ideale. L’autore non solo ha consultato le schede che Rota (1878-1941) riuscì a pubblicare (dalla lettera A alla C), ma anche l’archivio inedito.

Rovine di un castello, in una foto scattata a Castelseprio da un utente del sito Panoramio
Rovine di Castelseprio. adirricor, via wikimedia.org

‘Paesi scomparsi d’Insubria’ comprende peraltro in appendice, dopo l’inserto iconografico e cartografico, una breve biografia di Rota.

Gli scavi

La conferma archeologica esiste per gli insediamenti di Castel SeprioCollegamento esterno e Isola ComacinaCollegamento esterno, che potevano contare su una forte tradizione storiografica, Tremona-Castello, SallianenseCollegamento esterno.

Tremona, oggi parco archeologico [cfr. video], è stato localizzato a partire dal fortuito ritrovamento di un ripostiglio di monete. Sallianense è invece l’esempio di come l’analisi dei documenti possa sfociare nell’identificazione dell’area dell’abitato, poi confermata dagli scavi.

Dettaglio degli scavi archeologici medievali effettuati a Trezzo sull Adda, foto del 2009 tratta da un opuscolo del Comune
Area funeraria della chiesa di San Michele a Trezzo sull’Adda (villaggio ‘Sallianense’). Comune di Trezzo sull’Adda

La ricerca di Colaone offre spunti documentati per nuove esplorazioni, almeno in quelle aree (la minor parte) che dopo l’abbandono sono ritornate a essere rurali o boschive.

Gli archivi nell’era digitale

Il corografo di oggi ha qualche vantaggio, rispetto allo studioso degli anni Venti. La comunicazione con le fonti, l’accesso agli archivi, l’incrocio dei dati sono più veloci e pratici, benché non tutto sia stato digitalizzato.

Resta la necessità di una ricerca a tutto campo: “la geografia, la storia, la capacità di analisi dei documenti che non è cosa facile anche per la maniera, la calligrafia che si usava in questo tipo di documentazione”, osserva Matteo Colaone.

“Tutte queste cose messe insieme sono un po’ un mosaico, un puzzle che ti permette di individuare qualcosa del passato con elementi che ti provengono da varie direzioni”.  

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