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Renzi e i millequindici giorni da premier

Il percorso del presidente del Consiglio uscente, dalla Leopolda del 2010 al tonfo con il referendum sulla riforma costituzionale

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Matteo Renzi esce dunque di scena dopo 1015 giorni di governo. Sconfitto, dicono lunedì molti analisti, non tanto dal suo agire politico quanto dal sentimento “antirenziano” che lui stesso avrebbe contribuito a creare.

Non può certo indugiare sulla poltrona Matteo Renzi: colui che ha fatto della rottamazione uno dei concetti base della propria azione politica è costretto a togliere il disturbo dopo soli mille e quindici giorni da premier.

La fine di un percorso che parte lontano: nel 2010, con il convegno della Leopolda, in cui il giovane Renzi, già rampante sindaco di Firenze, inizia ad aprirsi con tenacia (qualcuno già sussurra “tracotanza”) il varco nel mare della politica italiana.

Parola d’ordine, appunto, rottamazione, rinnovo (anche anagrafico) della classe politica italiana. E un passo per volta ci riesce.

L’8 dicembre del 2013 viene eletto segretario del PD.

Solo poche settimane dopo sorprende tutti e indigna parte del suo partito invitando nella sede del PD il nemico di sempre della sinistra italiana, Silvio Berlusconi, con cui discute di riforme e legge elettorale. È il famoso patto del Nazareno, la data è quella del 18 gennaio 2014.

Tra i suoi s’infittiscono diffidenza e dissenso e monta un sentimento di antipatia quando, meno di un mese dopo, il 13 febbraio, mostrando scrupoli pari a zero, fa cadere il suo stesso compagno di partito Enrico Letta, il quale viene sfiduciato dalla direzione del partito democratico e scippato della premiership.

Tocca dunque a Matteo Renzi, neppure quarantenne, l’incarico di formare il nuovo governo che giura una manciata di giorni dopo, il 22 dello stesso mese.

Parte così, concitata, affrettata ed energica, l’esperienza di Renzi alla testa dell’esecutivo italiano.

I primi mesi sono di fuoco: deposita la nuova legge elettorale, promette ai meno abbienti 80 euro in più in busta paga, annuncia la riforma dell’amministrazione e quella del lavoro, la famosa Jobs Act che fa infuriare i sindacati.

Il rottamatore agisce, promuove la politica del fare e alle elezioni europee viene premiato dai voti.

Altri anglicismi segnano il suo agire in politica interna: la road map per la riduzione delle tasse (tagli da 45 miliardi annuncia all’assemblea del PD), mentre sul piano esterno ambisce a ritagliarsi un ruolo sulla scena internazionale. Dopo la Brexit rilancia il progetto europeo nel trilaterale con Germania e Francia sull’isola di Ventotene.

Infine, la battaglia più insidiosa per portare al voto la riforma costituzionale.

Battaglia anche feroce in sede parlamentare che ha portato a spaccature e che si è tradotta, immancabilmente con un personaggio così polarizzante, in un referendum pro o contro il premier dei mille giorni Matteo Renzi.

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