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Il fascino dell’Isis sulle spose jihadiste

Nello Stato Islamico il ruolo della donna non è stato solo passivo. Molte di loro sono state anche al fronte. Keystone

L'Isis "ha indottrinato una generazione di bambini ed è riuscita a coinvolgere le donne come nessuno aveva mai fatto prima”. Per Gina Vale, ricercatrice presso l’International Centre for the Study of Radicalisation, donne e minori hanno un ruolo centrale nel sostegno all’ideologia dell’autoproclamato Stato Islamico.

Un’evoluzione che le ha portate da semplici ‘spose jihadiste’ ad assumere una varietà di ruoli, potenzialmente capaci di utilizzare altrove le capacità nel combattere e compiere attentati. E di trasferirle ai figli, bambini cresciuti sotto un Califfato che ha ripetutamente pubblicizzato il suo successo nel reclutarli ed addestrarli.

“La rilevanza delle minacce alla sicurezza è stata dimostrata, anche se il numero è significativamente sottostimato”, spiega. Nel suo ultimo lavoro ‘Da Daesh alla diaspora’, insieme a Joana Cook ha analizzato motivazioni e propagande che hanno portato migliaia di donne a raggiungere l’Iraq e la Siria.

Di molte si sono perse le tracce, i numeri di quelle rientrate sono sottostimati e il loro destino, insieme a quello dei tanti bambini nati sotto il Califfato, resta un’incognita.

tvsvizzera.it: Professoressa Vale, quali sono le motivazioni che hanno portato queste donne a unirsi a Daesh, l’Isis?
Gina Vale:
Si è discusso molto sulle somiglianze e sulle differenze rispetto agli uomini. Le donne sono state tradizionalmente stereotipate come pacifiche e sono quindi spesso considerate vittime “passive” o “forzate”, adescate dai parenti maschi. Quello che risulta invece chiaramente dalla nostra ricerca è che alcune donne hanno scelto autonomamente di aderire e di trasferirsi in Iraq e Siria.  Le motivazioni che ci hanno dato sono la discriminazione e l’islamofobia avvertita nei paesi occidentali e il desiderio di ritrovare un senso di appartenenza, uno scopo alla propria vita. Sono spinte al radicalismo da motivazioni personali, esattamente come gli uomini.

Ma esiste un profilo tipo?
No, non esiste. Di certo bisogna guardare al di là del concetto riduttivo e semplicistico di ‘spose jihadiste’ e capire che le donne hanno svolto vari ruoli: dalla raccolta di fondi, alla propaganda fino ai combattimenti. 

Come hanno fatto a reclutarle?
E’ stata prodotta una propaganda mirata per il pubblico femminile, in parte scritta da funzionarie di alto rango. Le riviste in formato elettronico e in lingua inglese, come Dabiq e Rumiyah, hanno fornito giustificazioni ideologiche, rafforzando il valore del coinvolgimento femminile nel progetto di creazione dello stato utopico di Daesh. Hanno poi affrontato e dissipato le paure delle lettrici riguardo a pratiche estremiste, come il matrimonio precoce e la schiavitù sessuale. Questi testi, supportati dalle proselite e dalle propagandiste, dipingono un quadro roseo della vita sotto il dominio di Daesh, promettendo l’empowerment alle donne in linea con l’interpretazione della Sharia, in contrapposizione agli ideali occidentali di femminismo e uguaglianza di genere.

In che modo le donne e i minori sono pronti a svolgere un ruolo significativo nel sostenere l’ideologia e l’eredità di Daesh?
Le donne e i minori hanno subito sia un indottrinamento psicologico che un addestramento militare e di combattimento intensivo. Bambini anche di cinque anni sono stati mostrati assumere il ruolo di attentatori suicidi, combattenti ed esecutori. Per la prima volta, lo scorso febbraio, un video ha fatto vedere le donne combattere in prima linea. Sono state poi incoraggiate a svolgere un ruolo attivo nell’indottrinamento dei propri figli, educando e preparando i “piccoli” a essere i futuri guardiani dell’ideologia del gruppo e degli ideali del Califfato. 

Quali sono i numeri delle donne e dei bambini ritornati?
Permangono considerevoli lacune nei dati pubblicamente disponibili. Ad oggi, abbiamo contato 1.180 minori che sono ritornati nel proprio paese di partenza o di nazionalità (nel caso di bambini nati all’interno del territorio di Daesh ndr). Tuttavia, in confronto, solo 256 donne sono state registrate come rimpatriate, una cifra che costituisce appena il cinque per cento delle donne partire per l’Iraq e la Siria. Queste basse percentuali possono essere dovute a una serie di fattori, inclusa la difficoltà delle donne di muoversi liberamente o il fatto che siano riuscite, anche sulle base di stereotipi di genere come la “passività” e “l’innocenza”, a ritornare o viaggiare in paesi terzi senza essere individuate. In molti casi, lo stato delle donne è semplicemente sconosciuto.

Il vostro rapporto stima che 730 bambini sono nati da membri di Daesh stranieri in aree sotto il controllo del gruppo. Qual è la loro situazione attuale?
Abbiamo contato 730 casi di bambini nati da almeno un genitore straniero all’interno del territorio, ma anche qui riscontriamo molte lacune nei dati che ci portano a concludere che si tratti di una notevole sottostima. 566 dei 730 neonati sono di genitori dell’Europa occidentale, ma in questo caso i dati sono più facili da ottenere e questo ci ha portato a considerare che ci possano essere centinaia di altri bambini nati da combattenti provenienti da altri paesi. Sfortunatamente il destino di questi bambini resta largamente sconosciuto. Esiste un rischio importante di apolidia che affligge molti di loro, a causa di certificati di nascita non ufficiali rilasciati dall’amministrazione dell’autoproclamato Stato Islamico, nonché la difficoltà di dimostrare la genitorialità in caso di madri o padri deceduti, detenuti o ancora militanti attivi in prima linea.

Qual è il futuro di questi bambini? 
Se i bambini non sono in grado di ricevere documenti di identità ufficiali che assegnano una nazionalità e, di conseguenza, uno Stato che si assuma la responsabilità dell’assistenza, molti avranno difficoltà ad accedere ai servizi di base, quali l’istruzione, la sanità e le opportunità di carriera. La stigmatizzazione e l’isolamento dalla società possono quindi provocare potenziali privazioni del diritto di voto e risentimenti che, se non vengono affrontati in modo efficace, potrebbero alimentare la radicalizzazione di individui vulnerabili in futuro. 

Jean-Paul Rouiller, esperto di terrorismo svizzero del Geneva Centre for Security Policy (GCSP, Centro per le politiche di sicurezza di Ginevra), sostiene che in Svizzera attualmente la situazione è endogena, simile a quella del Regno Unito, della Francia o del Belgio in termini di nativi e rimpatriati. Quali sforzi potrebbero essere fatti dalle istituzioni considerando l’esperienza di altri paesi?
Questo è un momento critico. Gli Stati devono sviluppare politiche articolate ed efficaci condividendo dati, esperienze e lezioni apprese. E’ necessario considerare le motivazioni e i mezzi delle donne e dei minori, la loro partecipazione e i ruoli adottati e attivare risposte articolate e personalizzate che permettano percorsi di reintegro e riabilitazione.

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